lunedì 11 novembre 2013

Martino e il suo mantello

Tutti abbiamo ascoltato da bambini la leggenda dell’estate di San Martino, risulta perciò piuttosto facile riconoscerlo quando viene rappresentato nel celebre episodio. Diventa invece piuttosto difficile quando è raffigurato nelle vesti di vescovo di Tours, ma procediamo con ordine.
Martino nacque nel 316 o 317 in Sabaria, un avamposto dell’Impero Romano alle frontiere con la Pannonia, l’odierna pianura ungherese. Il padre, tribuno della legione, gli diede il nome di Martino in onore di Marte, il dio della guerra. Ancora bambino, Martino si trasferì coi genitori a Pavia, dove suo padre era stato destinato, ed in quella città trascorse l’infanzia. A quindici anni, in quanto figlio di un militare, dovette entrare nell’esercito. Come figlio di veterano fu subito promosso al grado di circitor e venne inviato in Gallia, presso la città di Amiens.
Il compito del circitor era la ronda di notte e l’ispezione dei posti di guardia, nonché la sorveglianza notturna delle guarnigioni. Durante una di queste ronde avvenne l’episodio che gli cambiò la vita (ancora oggi quello più ricordato e più usato dall’iconografia).
Martino, trovandosi alle porte della città di Amiens, vide un mendicante seminudo, vedendolo sofferente, tagliò in due il suo mantello militare e lo condivise con il mendicante. La notte seguente vide in sogno Gesù rivestito della metà del suo mantello militare. Udì Gesù dire ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro. Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi. Il termine latino per “mantello corto”, cappella, venne esteso alle persone incaricate di conservare il mantello di San Martino, i cappellani, e da questi venne applicato all’oratorio reale, che non era una chiesa, chiamato cappella.
Su questo episodio si innesta la leggenda dell’estate, Martino incontra più avanti un altro mendicante e decide di regalargli anche l’altra metà di mantello rimanendo così esposto alle intemperie. A tale generoso gesto prodigiosamente il freddo e la neve per quel giorno si attenuarono e al loro posto fece capolino il sole che si fece così intenso da assomigliare al tepore estivo: fu quella la prima “estate di San Martino”. Da allora riserva in Sicilia sempre una piccola parentesi di bel tempo, prima dell’inizio di temperature poco più rigide.
Tornando alla storia, il sogno ebbe un tale impatto su Martino, che egli, già catecumeno, venne battezzato la Pasqua seguente e divenne cristiano. Rimase ufficiale dell’esercito per una ventina d’anni raggiungendo il grado di ufficiale nelle alae scolares (un corpo scelto). Giunto all’età di circa quarant’anni, decise di lasciare l’esercito. Iniziò la seconda parte della sua vita impegnandosi nella lotta contro l’eresia ariana, condannata al Concilio di Nicea (325), e venne per questo anche frustato (nella nativa Pannonia) e cacciato, prima dalla Francia e poi da Milano, dove erano stati eletti vescovi ariani. Si recò quindi nell’Isola Gallinara ad Albenga in provincia di Savona, dove condusse quattro anni di vita eremitica. Tornato a Poitiers, al rientro del vescovo cattolico, divenne monaco e venne presto seguito da nuovi compagni, fondando uno dei primi monasteri d’occidente, a Ligugé, sotto la protezione del vescovo Ilario.
Nel 371 i cittadini di Tours lo vollero loro vescovo, anche se alcuni chierici avanzarono resistenze per il suo aspetto trasandato e le origini plebee. Come vescovo, Martino continuò ad abitare nella sua semplice casa di monaco e proseguì la sua missione di propagatore della fede, creando nel territorio nuove piccole comunità di monaci. La sua fama ebbe ampia diffusione nella comunità cristiana dove, oltre ad avere fama di taumaturgo, veniva visto come un uomo dotato di carità, giustizia e sobrietà.
Martino morì l’8 novembre 397 a Candes (poi Candes-Saint-Martin), dove si era recato per mettere pace tra il clero locale. Si disputano il corpo gli abitanti di Poitiers e quelli di Tours, questi ultimi, di notte, lo portano poi nella loro città per via d’acqua, lungo i fiumi Vienne e Loire. La sua morte, avvenuta in fama di santità, anche grazie a numerosi miracoli, segnò l’inizio di un culto nel quale la generosità del cavaliere, la rinunzia ascetica e l’attività missionaria erano associate.
San Martino di Tours viene ricordato l’11 novembre, sebbene questa non sia la data della sua morte, ma quella della sua sepoltura. Questa data è diventata una festa straordinaria in tutto l’Occidente, grazie alla sua popolare fama di santità e al numero notevole di cristiani che portavano il nome di Martino.
Numerose le raffigurazioni, anche da parte di celeberrimi pittori, del celebre episodio del povero. In questa iconografia cavalleresca, Martino appare nelle vesti di un giovane soldato con l’armatura e il povero costituisce l’attributo principale, mentre la spada, il mantello rosso e il cavallo (il più delle volte rigorosamente bianco, mentre altre anche grigio o marrone) ne rappresentano gli attributi secondari.
Non mancano tuttavia anche le rappresentazioni che lo vedono come un uomo barbuto, spesso pure canuto, in abiti vescovili dalla colorazione blu o talvolta rossa bardato di mitra (cappello vescovile) e pastorale (bastone con la punta arrotolata), tipici della carica ecclesiastica, che ne costituiscono gli attributi secondari insieme al libro simbolo della sua opera evangelizzatrice.
Proprio in queste vesti diventa attributo principale la presenza di un globo di fuoco, in richiamo alla sua lotta contro l’eresia ariana e il paganesimo rurale, oppure fa capolino alle sue spalle un’oca, in riferimento alla sua elezione a vescovo, oppure. Secondo la leggenda infatti, Martino era riluttante a diventare vescovo, motivo per cui si nascose in una stalla piena di oche; il rumore fatto da queste rivelò però il suo nascondiglio alla gente che lo stava cercando.
Un dipinto che lo raffigura in tali vesti presenta pure anche gli attributi del celebre episodio: un angelo alla sua sinistra custodisce la sua armatura reggendone l’elmo, mentre un altro alla sua destra gli porge mantello e spada.
Molte chiese in Europa sono dedicate a san Martino. Tra queste Lucca e Belluno hanno dedicato a San Martino la propria Cattedrale. L’11 novembre i bambini delle Fiandre e delle aree cattoliche della Germania e dell’Austria, nonché dell’Alto Adige, partecipano a una processione di lanterne, ricordando la fiaccolata in barca che accompagnò il corpo del santo a Tours. Spesso un uomo vestito come Martino cavalca in testa alla processione. I bambini cantano canzoni sul santo e sulle loro lanterne. Il cibo tradizionale di questo giorno è l’oca. In anni recenti la processione delle lanterne si è diffusa anche nelle aree protestanti della Germania, nonostante il fatto che la Chiesa protestante non riconosca il culto dei santi.
In Italia il culto del Santo è legato alla cosiddetta “estate di san Martino” la quale si manifesta, in senso meteorologico, all’inizio di novembre e dà luogo ad alcune tradizionali feste popolari. Nel comune abruzzese di Scanno, ad esempio, in onore di San Martino si accendono grandi fuochi detti “glorie di San Martino” e le contrade si sfidano a chi fa il fuoco più alto e durevole.
Nel veneziano l’11 novembre è usanza preparare il dolce di San Martino, un biscotto dolce di pasta frolla con la forma del Santo a cavallo con la spada, decorato con glassa di albume e zucchero ricoperta di confetti e caramelle; è usanza inoltre che i bambini della città lagunare intonino un canto d’augurio casa per casa e negozio per negozio, suonando padelle e strumenti di fortuna, in cambio di qualche monetina o qualche dolcetto. Nel Salento, in particolare, questa tradizione è molto sentita. Ci si riunisce tutti, familiari, amici e si cena tutti assieme con il Vino Novello, castagne, salsiccia, focacce, frutta secca e tutto quello che offre la campagna in questo periodo.
Nel nord Italia, specialmente nelle aree agricole, fino a non molti anni fa tutti i contratti (di lavoro ma anche di affitto, mezzadria, ecc.) avevano inizio (e fine) l’11 novembre, data scelta in quanto i lavori nei campi erano già terminati senza però che fosse già arrivato l’inverno. Per questo, scaduti i contratti, chi aveva una casa in uso la doveva lasciare libera proprio l’11 novembre e non era inusuale, in quei giorni, imbattersi in carri strapieni di ogni masserizia che si spostavano da un podere all’altro, facendo “San Martino”, nome popolare, proprio per questo motivo, del trasloco. Ancora oggi in molti dialetti e modi di dire del nord “fare San Martino” mantiene il significato di traslocare.
In molte regioni d’Italia l’11 novembre è simbolicamente associato alla maturazione del vino nuovo (da qui il proverbio “A San Martino ogni mosto diventa vino”) ed è un’occasione di ritrovo e festeggiamenti nei quali si brinda, appunto, stappando il vino appena maturato e accompagnato da castagne o caldarroste. Sebbene non sia praticata una celebrazione religiosa a tutti gli effetti (salvo nei paesi dove san Martino è protettore), la festa di San Martino risulta comunque particolarmente sentita dalla popolazione locale.
Anche in Sicilia il giorno del Santo entra in corrispondenza al periodo detto della svinatura. Per i palermitani quel giorno finisce l’inesauribile estate, che spesso si prolunga fino a primi giorni di novembre, e per l’occasione si gusta il vino novello che l’industria vinicola fa degustare aprendo le porte alle varie cantine disseminate nel triangolo vinicolo della provincia. Un altro proverbio recita che per san Martino, s’ammazza lu porcu e si sazza lu vinu, infatti, in alcune località siciliane si attendono questi giorni di Novembre per sopprimere il maiale e farne prosciutti, salami, zamponi e salsicce da spruzzare di vino novello appena spillato, durante la cottura.
Martino fu definito il patrono degli ubriaconi, che affollavano le varie “taverne” della città festeggiando solenni banchetti a base di verdure cotte: carduna, vruocculi e uova sode, accompagnati da abbondanti libagioni.
Chi aveva modeste possibilità, quel giorno si limitava ad accompagnare il suo modesto pasto con del vino “novello”. Per i più benestanti tutte le scuse erano buone per imbandire la tavola e quel giorno oltre a brindare con il vino novello, si mangiava abbondantemente e sulle ricche tavole era presente il tradizionale tacchino ruspante o, in alternativa, la carne di maiale la faceva da leone.
Per il San Martino dei poveri, nella tradizione palermitana, bisognava aspettare la prima domenica dopo l’undici novembre, il giorno dopo la riscossione della simanata (il salario settimanale), per concludere il frugale pasto domenicale con u viscottu i San Martino abbagnatu nn’o muscatu, (il biscotto di San Martino intriso nel moscato), vino liquoroso in genere offerto in dono dall’abituale fornitore di vino.
Confezionati con fior di farina impastata con il latte e fortemente lievitata e chiamati anche sammartinelli, hanno la forma di una pagnottella rotondeggiante della grossezza di un’arancia e l’aggiunta nell’impasto di semi d’anice (o finocchietto selvatico) conferisce loro un sapore e un profumo particolare. Cotti a fuoco lento, si presentano molto croccanti e friabilissimi ed in questa occasione vengono largamente consumati appunto abbagnati (inzuppati) nel vino liquoroso “moscato di Pantelleria” ricavato da uve inzolia o inzuppati nel vino appena spillato.
Oltre quello destinato ad essere inzuppato nel moscato, detto “tricotto” croccante e friabilissimo, esiste anche il “rasco”, più morbido e destinato ad essere riempito di crema di ricotta dolce oppure di conserva e decorato in modo quasi barocco, con glassa di zucchero a riccioli e ghirigori, sormontato da un cioccolattino e fiorellini di pasta reale.
Un’altra curiosa tradizione che ha luogo per San Martino è quella che si svolge a Palazzo Adriano, in provincia di Palermo. Una antica usanza d’origine balcanica vede i parenti di una coppia di sposi, farsi carico della costituzione della casa degli sposi novelli, insieme a tutto il cibo utile al rifornimento per l’anno in corso. Si prevede anche che durante le ore della mattina, alcuni bambini sfilino per le strade del paese, portando ceste piene dei tradizionali “pani di San Martino”.
Ai genitori dello sposo spetta in questa occasione regalare u quadaruni (la grossa pentola di rame) e a quelli della sposa a brascera (il braciere di rame) che serve a riscaldare la casa nei mesi invernali.
Nella piccola cittadina montana di Palazzolo Acreide, prima colonia della Siracusa greca, la tradizione suole accompagnare al vino delle ciambelline di patate fritte e zuccherate, mentre in altre zone del siracusano si preparano le zeppole che qui chiamano crispeddi.

sabato 10 agosto 2013

Le lacrime di Lorenzo

Della vita di San Lorenzo si sa pochissimo, è noto soprattutto per la sua morte, e anche lì con problemi. Le antiche fonti lo indicano come arcidiacono di papa Sisto II, cioè il primo dei sette diaconi allora al servizio della Chiesa romana. Assiste il papa nella celebrazione dei riti, distribuisce l’Eucaristia e amministra le offerte fatte alla Chiesa.
Viene dunque la persecuzione, e dapprima non sembra accanita: vieta le adunanze di cristiani, blocca gli accessi alle catacombe, esige rispetto per i riti pagani, ma non obbliga a rinnegare pubblicamente la fede cristiana. Nel 258, però, Valeriano ordina la messa a morte di vescovi e preti. Così il vescovo Cipriano di Cartagine, esiliato nella prima fase, viene poi decapitato, stessa sorte tocca ad altri vescovi e allo stesso papa Sisto II, ai primi di agosto del 258. Si racconta che Lorenzo lo incontri e gli parli, mentre va al supplizio. Poi il prefetto imperiale ferma lui, chiedendogli di consegnare “i tesori della Chiesa”.
Nella persecuzione sembra non mancare un intento di confisca e il prefetto deve essersi convinto che la Chiesa del tempo possieda chissà quali ricchezze. Lorenzo, comunque, chiede solo un po’ di tempo, si affretta poi a distribuire ai poveri le offerte di cui è amministratore e infine compare davanti al prefetto mostrandogli la turba dei malati, storpi ed emarginati che lo accompagna e dicendo: “Ecco, i tesori della Chiesa sono questi”.
Allora viene messo a morte e un’antica “passione”, raccolta da sant’Ambrogio, precisa: “Bruciato sopra una graticola”: un supplizio che ispirerà opere d’arte, testi di pietà e detti popolari per secoli. Celebre il passo in cui rivolgendosi ai suoi aguzzini dice: Assum est,... versa et manduca, “Sono cotto da questa parte, girami dall’altra e poi mangiami”. Ma gli studi dichiarano leggendaria questa tradizione. Valeriano non ordinò torture, si può ritenere che Lorenzo sia stato decapitato come Sisto II, Cipriano e tanti altri. Il corpo viene deposto poi in una tomba sulla via Tiburtina, su di essa Costantino costruirà una basilica, poi ingrandita via via da Pelagio II e da Onorio III e restaurata nel XX secolo, dopo i danni del bombardamento americano su Roma del 19 luglio 1943.
Fin dai primi secoli del cristianesimo, Lorenzo viene generalmente raffigurato come un giovane diacono rivestito della dalmatica (l’abito proprio dei diaconi, che indossano nelle celebrazioni liturgiche), con il ricorrente attributo della graticola o, in tempi più recenti, della borsa del tesoro della Chiesa romana da lui distribuito, secondo i testi agiografici, ai poveri. Gli agiografi sono concordi nel riconoscere in Lorenzo il titolare della necropoli della via Tiburtina a Roma. Il suo corpo è sepolto nella cripta della confessione di san Lorenzo insieme ai santi Stefano e Giustino. I resti furono rinvenuti nel corso dei restauri operati da papa Pelagio II.
Patrono di diaconi, rosticcieri, osti, cuochi, pompieri, bibliotecari e librai, nonché di numerosi comuni, viene invocato contro gli incendi, la lombaggine e le malattie delle viti.
Il suo attributo principale è la graticola, simbolo specifico del martirio, che lo accompagna sempre e lo contraddistingue, preferita da molti artisti proprio la scena leggendaria del martirio. Attributi secondari sono invece la palma, simbolo generico del martirio, e il libro, in riferimento alla diffusione del Vangelo.
La notte di san Lorenzo (10 agosto) è tradizionalmente associata al fenomeno delle stelle cadenti, considerate evocative delle lacrime versate dal santo quando fu martirizzato sui carboni ardenti, altri sostengono che si tratti invece delle fiammelle del fuoco su cui giaceva, in Grecia rappresentano invece la Trasfigurazione del Signore (6 agosto). In ogni caso la tradizione vuole che ogni persona che si fermi a ricordare i dolori patiti dal santo possa esprimere un desiderio nel momento che intravede una stella cadente.
In effetti, in questi giorni, la Terra, nel suo cammino intorno al Sole, attraversa in questo periodo dell’anno lo sciame meteorico delle Perseidi (il punto dal quale sembrano provenire tutte le scie, è collocato nella costellazione di Perseo), e quindi l’atmosfera terrestre è forata da un numero di meteore molto superiore a quello di altri mesi. Succede, come rilevato nel 1866 dall’astronomo Schiaparelli, che una cometa, la Swift Tuttle, nel suo passaggio (l’ultimo nel 1992) rilascia particelle che la Terra impatta sulla sua atmosfera a circa 60 km al secondo quando, dalla fine luglio al 20 agosto (meglio il 12 e il 13), passa da quelle parti.
Intorno al 10 agosto, Notte di San Lorenzo, gli impatti sono un centinaio all’ora, un fenomeno poeticamente inquietante, che sposta i sentimenti umani dall’angoscia esistenziale legata alla caduta, a quello pop e volutamente ingenuo dei desideri da esprimere perché si avverino.
Celebre la poesia di Giovanni Pascoli, intitolata appunto X agosto, scritta nel ricordo dell’assassinio del padre, che interpreta la pioggia di stelle cadenti come lacrime celesti e fa riferimento al pianto del cielo per la sua morte.

lunedì 24 giugno 2013

La natività del Battista

Il 24 giugno si festeggia il cosiddetto “Natale estivo”. La Chiesa celebra la festa di tre natività soltanto: quella di Cristo, quella della Madonna e quella del Precursore. Per gli altri Santi, infatti, si festeggia non la loro nascita nella carne, bensì la loro entrata nel Cielo (chiamata dies natalis, cioè la nascita alla vita eterna).

San Giovanni Battista occupa quindi senz’altro una posizione eminente nella schiera dei Santi. Secondo la Tradizione è in Paradiso il più alto dopo la Madonna, perché assomiglia di più a Nostro Signore, e perché, anche se non fu preservato come Maria Santissima dal peccato originale, fu purificato e consacrato nel grembo di sua madre Elisabetta nel giorno della Visitazione.

Tra le personalità quindi più importanti dei Vangeli, venerato da tutte le Chiese cristiane, la sua vita e predicazione sono costantemente intrecciate con l’opera di Gesù Cristo, tanto da essere, insieme a quest’ultimo, menzionato cinque volte nel Corano.

Fu il più grande fra i profeti perché poté additare l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. La sua vocazione profetica fin dal grembo materno è circondata di eventi straordinari, pieni di gioia messianica, che preparano la nascita di Gesù. Giovanni è il Precursore del Cristo con la parola e con la vita. Il battesimo di penitenza che accompagna l’annunzio degli ultimi tempi è figura del Battesimo secondo lo Spirito. La data della festa, tre mesi dopo l’annunciazione e sei prima del Natale, risponde alle indicazioni di Luca.

È il santo più raffigurato nell’arte di tutti i secoli; non c’è si può dire, pala d’altare o quadro di gruppo di santi, da soli o intorno al trono della Vergine Maria, che non sia presente questo santo, rivestito di solito con una pelle d’animale e con in mano un bastone terminante a forma di croce.

Senza contare le tante opere pittoriche dei più grandi artisti come Raffaello, Leonardo, ecc. che lo raffigurano bambino, che gioca con il piccolo Gesù, sempre rivestito con la pelle ovina e chiamato affettuosamente “San Giovannino”.

Attributo principale nell’iconografia è un lungo bastone da viandante sormontato da una piccola croce, con la scritta latina Ecce agnus Dei (Ecco l’Agnello di Dio, Gv 1, 29-36) a cui spesso si accompagna un agnello, raffigurato al suo fianco; è vestito con l’abito tessuto di peli di dromedario, a cui a volte si aggiunge il mantello rosso, segno del martirio.

Viene rappresentato in diversi momenti della sua vita: alla nascita, gli artisti indugiano sul delicato particolare di Zaccaria, che, reso muto dall’angelo per la sua incredulità, scrive su un libro il nome del neonato, scena nota come Imposizione del nome del Battista; bambino (San Giovannino), già vestito con una pelle di dromedario, in compagnia di Gesù e altri personaggi delle due famiglie.

La raffigurazione più frequente è, ovviamente, la scena del Battesimo di Gesù nel Giordano, sovente con in mano una conchiglia con cui versa l’acqua sul capo di Gesù, opera presente presso ogni fonte battesimale. È infine rappresentato nel momento del martirio, o subito dopo, quando la sua testa viene presentata su un vassoio a Erode, Erodiade e Salomè.


In varie parti d’Europa, nell’ambiente agricolo, accanto alla celebrazione liturgica si sono sviluppate manifestazioni ricollegabili a culti agrari e solari di origine pagana, giunte ai giorni nostri che traggono la loro origine nel fatto che, nel calendario dell’antica Roma il 24 giugno era il giorno del solstizio d’estate e segnava l’inizio della mietitura. Tra le varie manifestazioni vi era l’uso di cantare e ballare, nella notte della vigilia, attorno ad un falò (il fuoco ha funzioni purificatrici e propiziatrici); nella stessa occasione erano riconosciute funzioni propiziatrici anche all’acqua, a certe erbe, al sole nascente, per tale motivo è conosciuta anche come la notte delle streghe.


domenica 24 marzo 2013

L’olivo e le sue leggende


« Mi rivolgo a voi che avete il plauso di aver toccato con le mani la leggenda… »
Ricorre oggi la domenica delle Palme che nella tradizione cristiana ricorda l’ingresso trionfale a Gerusalemme di Gesù.
In occasione della sua ultima pasqua Gesù si recò nella città santa di Gerusalemme ove fu accolto come Messia dalla folla festante che lo acclamò gridando “Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore” e agitando rami d’ulivo e di palma.
Leggende sacre e profane, riti religiosi e simbolici, raffigurazioni mitologiche avvalorano l’importanza storica della cultura dell’olivo e il suo grande valore simbolico.
Dice la Bibbia che nel momento in cui gli alberi decisero di eleggere un Re, il primo ad essere designato come più meritevole di questa suprema dignità fu l’ulivo il quale, malgrado le vivaci insistenze rivoltegli, declinò l’incarico giustificando il suo rifiuto per il fatto che le cure del governo avrebbero potuto distrarlo dalla importante missione affidatagli da Dio a vantaggio degli uomini.
Racconta la leggenda che Noè dopo il diluvio universale fece uscire una colomba dall’arca e questa ritornò con un ramoscello di ulivo tra il becco, segno che le acque si erano ritirate e che la pace era sulla terra. Da qui la colomba assurge a simbolo di pace, con o senza ramoscello d’ulivo.
Sull’Acropoli di Atene esiste una pianta d’olivo che sembra abbia dato origine al mito. Scolpita sul frontone del Partenone, la mitologia greca tramanda che un giorno avvenne una contesa presso gli Dei dell’Olimpo, in particolare fra Poseidone (Nettuno per i romani) e Atena (Minerva per i romani) per la signoria dell’Attica; una nuova città stava nascendo sulle mosse colline: il destino aveva preparato per essa molte glorie. Non aveva ancora nome che le due divinità se ne disputavano ferocemente il possesso e Zeus (Giove per i romani), che quel giorno era di ottimo umore (non doveva tenere a bada gli amanti di Era né trasformarsi in pioggia per amare una donna), stabilì che avrebbe concesso il dominio (e intitolato la nuova città) a chi tra i due contendenti avesse portato il dono migliore.
Poseidone, scagliò  il suo tridente contro la roccia, fece sgorgare acqua di mare (un’altra fonte parla invece di percuotere la sabbia bagnata della battigia da cui ne scaturì un meraviglioso cavallo bianco che incominciò a correre sul bagnasciuga) asserendo che  con quel gesto gli ateniesi sarebbero stati i dominatori invincibili del mare.

Pàllade Atena invece si portò a ridosso delle mura in costruzione e sfiorò la terra con la sua lancia: d’incanto nacque immediatamente un albero dalle foglie d’argento con delle bacche verdi, l’olivo appunto. Esso serviva per illuminare la notte, per medicare le ferite e per offrire nutrimento alla popolazione. Era evidente che fra il potere che avrebbe procurato guerre e l’albero che avrebbe dato frutti, quindi benessere e pace, il dono di Atena era più utile, quindi fu lei a vincere la sfida, in suo onore la città venne chiamata Atene ed il culto greco le consacrò l’ulivo, che sorse nell’Acropoli a protezione della città di Atene, presidiato dai soldati perché sacro. Questa leggenda era raffigurata nella classica moneta da 100 lire che per molti anni ha circolato in Italia fino ad essere sostituita dall’euro.
A Roma l’olivo era dedicato a Minerva e Giove. I romani, pur nella loro praticità di considerare l’olio d’oliva come merce da esigere dai vinti, da commerciare, da consumare, mutuarono dai Greci alcuni aspetti simbolici dell’olivo. Onoravano i cittadini illustri con corone intrecciate di fronde di olivo, così pure gli sposi il giorno delle nozze; i morti infine venivano inghirlandati per significare di essere vincitori nelle lotte della vita umana.

Fu pianta sacra anche per i Sicelioti, i greci di Sicilia, a cui si deve la sua diffusione nell’isola, la tradizione vuole che l’ateniese Aristeo insegnò agli antichi siciliani come estrarre l’olio, inventando u trappitu (tradizionale oleificio a pressione), e per questo fu onorato con un tempio in suo onore a Siracusa. Ma, fu con la dominazione araba che la coltivazione dell’ulivo si diffuse maggiormente in Sicilia.
L’albero in origine era enorme, con il fusto e i rami diritti, come ogni albero che si rispetti, diritto e liscio come il pioppo.
Una seconda leggenda ci spiega come divenne contorto e spaccato come lo vediamo ora.
Dobbiamo trasferirci molti anni dopo, nel periodo della dominazione romana, quando Gesù Cristo fu condannato alla crocifissione. Alcuni soldati vennero inviati a cercare l’albero che sarebbe servito a fare la croce.
Il bosco cominciò a muoversi come fosse venuto un uragano, nessun albero voleva fare una cosa così atroce. Gli alberi, appena videro gli sgherri, cominciarono a pregare il cielo che gli fosse risparmiata la vita. I cedri e le palme fecero un sospiro di sollievo perché uno degli sgherri disse: “Né palme, né cedri fanno al caso nostro!”
Gli ulivi, invece, si sentirono perduti e così tentarono di sradicarsi, di torcersi, di ingobbirsi e iniziarono a gemere e a piegarsi in un susseguirsi di convulsioni, come se un vento fortissimo stesse squassando i rami e le foglie.
Si piegarono e torsero, talmente tanto che i rami si spezzarono, il tronco si piegò spaccando la corteccia. Alla fine rimasero fermi, impotenti a fuggire, ma inutili per sempre a diventare legno per la croce; i soldati  non riuscirono a trovare un solo tronco che corrispondesse alle necessità e dovettero andare altrove a cercare un altro tipo di albero.
Proseguirono la loro ricerca in un’altra foresta poco distante, una foresta di faggi e querce e fu proprio una grande quercia a dare il legno per la croce, ma gli olivi continuarono a crescere così per ricordare a tutti l’orrore evitato. Da allora l’albero dalle foglie d’argento vive felice di essere brutto ma contento di non essere stato usato per crocifiggere Gesù.

mercoledì 23 gennaio 2013

A Solarino... sulle orme di Paolo!


Si svolgerà alle ore 19 di sabato 26 gennaio, presso l’aula consiliare “Falcone-Borsellino” del comune di Solarino, la conferenza “Sulle orme di Paolo – Viaggio attraverso i segni dell’Apostolo”, patrocinata dalla sezione di Floridia dell’Ente Fauna Siciliana, dall’Associazione Culturale Croche Double Croche e dall’Associazione Keraylès di Solarino.
L’evento trae spunto da una pubblicazione digitale omonima di Giuseppe Mazzarella che, partendo dai simboli iconografici che caratterizzano l’Apostolo delle genti, ripercorre la figura paolina attraverso le tradizioni presenti nell’Altopiano Ibleo e il culto di origine maltese.
Ad introdurre i lavori sarà Giuseppe Lissandrello, direttore della Kerayles Edizioni, la casa editrice che con questa pubblicazione inaugura la sua collana dedicata alle tradizioni del territorio.
Aprirà la serie di interventi lo scrittore Giuseppe Mazzarella con “L’Apostolo nell’arte e nella tradizione iblea”, trattando della figura del santo attraverso alcune rappresentazioni pittoriche ed i simboli ad essa legati. Particolare rilievo sarà dato alla figura del serpente presente quasi esclusivamente nel culto maltese ed in quello di Solarino e della vicina Palazzolo Acreide.
Seconda in scaletta è la relazione del naturalista Paolino Uccello dal titolo “I serpenti negli Iblei” che illustrerà la presenza e le caratteristiche di alcuni rettili presenti sul territorio e di alcuni antichi rimedi per curare i morsi velenosi di animali.
Chiuderà i lavori lo storico Lucia Aparo argomentando sulla figura de “I ciaràuli tra leggenda e realtà”, figura mitica e folcloristica di guaritori presenti proprio in questi luoghi che assumeva particolare visibilità in occasione della festa patronale e che il medico palermitano Giuseppe Pitrè ha trattato in alcuni suoi lavori.
L’e-book che da il titolo all’evento trae spunto da una manifestazione voluta dall’Associazione Culturale Keraylés allo scopo di recuperare le antiche tradizioni legate al territorio di San Paolo Solarino (denominazione in uso fino agli anni ‘20) e del suo Santo patrono. Il 29 luglio 2010 ha infatti organizzato la 1ª edizione del “Keraylés Fest” ovvero “La notte dei ciaràuli”, all’interno dei festeggiamenti dell’apostolo Paolo che culminano nella festa celebrata la prima domenica di agosto.
Sulla scia della salentina “Notte della Taranta”, si è voluto creare un festival che, attraverso arte, suoni e coreografie, riportasse in auge le antiche tradizioni ormai quasi del tutto scomparse e, al contempo, fungesse da elemento catalizzatore per un nuovo turismo culturale capace di attingere al filone della tradizione e del folclore locali.
La pubblicazione, dopo aver sviscerato in tutti i suoi aspetti artistici e folcloristici la figura di San Paolo ed i simboli ad essa legati, effettua un breve excursus attraverso piante ed animali legati all’Apostolo, le figure mitologiche presenti nel folclore, i santi che “fanno concorrenza” nella cura dei morsi velenosi e la gastronomia festiva con le relative ricette, chiudendo con una ricognizione sulle potenzialità turistiche racchiuse nella festa e nel folclore paolino.