martedì 25 dicembre 2012

La sacra rappresentazione della natività cristiana



Secondo un’antica tradizione, il presepe deve essere allestito per l’8 dicembre (festa dell’Immacolata) senza il bambinello che va collocato solo il 25 dicembre (Natale); il 6 gennaio dell’anno nuovo (festa dell’Epifania) si celebra la visita e l’adorazione di Gesù Bambino da parte dei Re Magi che vengono così inseriti nel presepio.
La tradizione vuole che resti esposto ancora per lungo tempo e sia disfatto il 2 febbraio (presentazione di Gesù al Tempio di Gerusalemme), popolarmente conosciuta come “Festa della Candelora” perché in questo giorno si benedicono le candele simbolo di Cristo “luce per illuminare le genti”, come il Bambino Gesù venne chiamato dal vecchio Simeone al momento della presentazione al Tempio. Anticamente nello smontare i presepi si dava in questo giorno per l’ultima volta un bacio al Bambinello Gesù: infatti, la festa della Candelora chiude il periodo delle celebrazioni natalizie ed apre il cammino verso la Pasqua.
Il termine presepe o più correttamente, come riportato nella maggior parte dei dizionari, presepio deriva dal latino praesaepe, propriamente “recinto chiuso, greppia, mangiatoia”: composto da prae = “innanzi”  e  saepes = “recinto”, ovvero luogo che ha davanti un recinto.
Sebbene sia da considerare presepio anche il dipinto o il bassorilievo con la Natività, l’adorazione dei pastori e quella dei Magi, nel significato comune si intende la rappresentazione plastica (a tre dimensioni) della nascita di Gesù che si fa tradizionalmente nelle chiese e nelle case a Natale, con figure ed elementi mobili collocati su uno sfondo che ha al centro la grotta di Betlemme. Il presepio, così come lo rappresentiamo oggi, è frutto di una progressiva evoluzione che si è realizzata nei secoli attraverso la confluenza di più fonti.
Verrebbe istintivamente da pensare che la creazione del presepio sia stata basata, in prevalenza, sulla descrizione dei Vangeli canonici. Ma, ad una lettura attenta degli stessi, si noterà come solo l’evangelista Luca ci fornisce una descrizione della nascita di Gesù: « Maria diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo. » (Luca 2, 7). Marco e Giovanni nulla raccontano sulla vicenda, mentre Matteo si sofferma poco sull’evento.
Incuriosisce poi scoprire, tra l’altro, che asino e bue non sono affatto menzionate nei Vangeli canonici: dunque dove trovano origine tutti gli elementi (personaggi, scenari, oggetti, animali e vegetazione) che caratterizzano il presepe?
Fin dalle origini del cristianesimo, vista la sintetica descrizione fatta dai libri canonici, si diffusero leggende intorno alla Natività che furono poi trascritte in vari testi. Tra questi, furono di particolare ispirazione i Vangeli cosiddetti Apocrifi; si citano al riguardo il Protovangelo di San Giacomo e lo Pseudo-Matteo. Questo avvenimento così familiare e umano se da un lato colpisce la fantasia dei paleocristiani rendendo loro meno oscuro il mistero di un Dio che si fa uomo, dall’altro li sollecita a rimarcare gli aspetti trascendenti quali la divinità dell’infante e la verginità di Maria. Così si spiegano le effigi parietali del III secolo nel cimitero di S. Agnese e nelle catacombe di Pietro e Marcellino e di Domitilla in Roma che ci mostrano una Natività e l’adorazione dei Magi.
A partire dal IV secolo la Natività diviene uno dei temi dominanti dell’arte religiosa e in questa produzione spiccano per valore artistico: la natività e l’adorazione dei magi del dittico a cinque parti in avorio e pietre preziose del V secolo che si ammira nel Duomo di Milano e i mosaici della Cappella Palatina a Palermo, del Battistero di S. Maria a Venezia e delle Basiliche di S. Maria Maggiore e S. Maria in Trastevere a Roma. In queste opere dove si fa evidente l’influsso orientale, l’ambiente descritto è la grotta, che in quei tempi si utilizzava per il ricovero degli animali, con gli angeli annuncianti mentre Maria e Giuseppe sono raffigurati in atteggiamento ieratico simili a divinità o, in antitesi, come soggetti secondari quasi estranei all’evento rappresentato. Dal secolo XIV la Natività è affidata all’estro figurativo degli artisti più famosi che si cimentano in affreschi, pitture, sculture, ceramiche, argenti, avori e vetrate che impreziosiscono le chiese e le dimore della nobiltà o di facoltosi committenti dell’intera Europa, valgano per tutti i nomi di Giotto, Filippo Lippi, Piero della Francesca, il Perugino, Dürer, Rembrandt, Poussin, Zurbaran, Murillo, Correggio, Rubens e tanti altri.
La tradizione, prevalentemente italiana, risale però all’epoca di San Francesco d’Assisi che nel 1223 realizzò a Greccio la prima rappresentazione vivente della Natività. Sebbene esistessero anche precedentemente immagini e rappresentazioni della nascita del Cristo, queste non erano altro che “sacre rappresentazioni” delle varie liturgie celebrate nel periodo medievale. L’idea era venuta al Santo d’Assisi nel Natale del 1222, quando a Betlemme ebbe modo di assistere alle funzioni per la nascita di Gesù; Francesco rimase talmente colpito che, tornato in Italia, chiese al Papa Onorio III di poter ripetere le celebrazioni per il Natale successivo. A quei tempi le rappresentazioni sacre non potevano tenersi in chiesa, il Papa gli permise di celebrare una messa all’aperto. Fu così che, la notte della Vigilia di Natale del 1223, a Greccio, in Umbria, San Francesco allestì il primo presepe vivente della storia. I contadini del paese accorsero nella grotta, i frati con le fiaccole illuminavano il paesaggio notturno e all’interno della grotta fu posta una greppia riempita di paglia con accanto il bue e l’asinello. Il ricordo di questo evento è stato tramandato dal francescano Tommaso da Celano (1190-1260 ca) e magistralmente dipinto da Giotto nell’affresco della Basilica Superiore di Assisi.
Fu poi l’ordine Francescano e successivamente i domenicani e i gesuiti che diedero, non solo in Italia, dall’Alto Adige alla Sicilia, ma in tutta l’Europa centrale impulso alla costruzione di presepi divenuti talora permanenti, sia a figure mobili, sia fissi, in pietra o in terracotta, spesso di gigantesche dimensioni, tipici dell’Italia centromeridionale. Il più antico presepio d’Italia almeno in parte conservato può considerarsi quello dell’oratorio del Presepio nella cripta sotto la Cappella Sistina in Santa Maria Maggiore a Roma, scolpito nel legno nel 1280 circa da Arnolfo di Cambio; sono superstiti i tre Magi, San Giuseppe, il bue, l’asino; rifatti la Madonna e il Bambino nel XVI sec. Da allora e fino alla metà del 1400 gli artisti modellano statue di legno o terracotta che sistemano davanti a un fondale pitturato riproducente un paesaggio che fa da sfondo alla scena della Natività; il presepe è esposto all’interno delle chiese nel periodo natalizio. Culla di tale attività artistica fu la Toscana, ma ben presto il presepe si diffuse nel regno di Napoli ad opera di Carlo III di Borbone e nel resto degli Stati italiani.
Nel 1517 San Gaetano da Thiene ebbe la visione della Vergine che gli offriva in braccio il Bambino, con accanto San Giuseppe e San Girolamo, mentre nel 1534, allestisce un presepe nella Chiesetta di Santa Maria della “Stalletta” a Napoli; viene considerato così come uno dei precursori del presepe a dimensione familiare.
Nel ‘600 e ‘700 gli artisti napoletani danno alla sacra rappresentazione un’impronta naturalistica inserendo la Natività nel paesaggio campano ricostruito in scorci di vita che vedono personaggi della nobiltà, della borghesia e del popolo rappresentati nelle loro occupazioni giornaliere o nei momenti di svago: nelle taverne a banchettare o impegnati in balli e serenate. Ulteriore novità è la trasformazione delle statue in manichini di legno con arti in fil di ferro, per dare l’impressione del movimento, abbigliati con indumenti propri dell’epoca e muniti degli strumenti di svago o di lavoro tipici dei mestieri esercitati e tutti riprodotti con esattezza anche nei minimi particolari. Questo per dare verosimiglianza alla scena delimitata da costruzioni riproducenti luoghi tipici del paesaggio cittadino o campestre: mercati, taverne, abitazioni, casali, rovine di antichi templi pagani. A tali fastose composizioni davano il loro contributo artigiani vari e lavoranti delle stesse corti regie o la nobiltà, come attestano gli splendidi abiti ricamati che indossano i Re Magi o altri personaggi di spicco, spesso tessuti negli opifici reali di S. Leucio. In questo periodo si distinguono anche gli artisti liguri in particolare a Genova, e quelli siciliani che, in genere, si ispirano sia per la tecnica che per il realismo scenico, alla tradizione napoletana con alcune eccezioni come ad esempio l’uso della cera a Palermo e Siracusa o le terracotte dipinte a freddo di Savona e Albisola. Sempre nel ‘700 si diffonde il presepio meccanico o di movimento che ha un illustre predecessore in quello costruito da Hans Schlottheim nel 1588 per Cristiano I di Sassonia. La diffusione a livello popolare si realizza pienamente nel ‘800 quando ogni famiglia in occasione del Natale costruisce un presepe in casa riproducendo la Natività secondo i canoni tradizionali con materiali - statuine in gesso o terracotta, carta pesta e altro - forniti da un fiorente artigianato. In questo secolo si caratterizza l’arte presepiale della Puglia, specialmente a Lecce, per l’uso innovativo della cartapesta, policroma o trattata a fuoco, drappeggiata su uno scheletro di fil di ferro e stoppa. A Roma le famiglie importanti per censo e ricchezza gareggiavano tra loro nel farsi costruire i presepi più imponenti, ambientati nella stessa città o nella campagna romana, che permettevano di visitare ai concittadini e ai turisti. Famosi quello della famiglia Forti posto sulla sommità della Torre degli Anguillara, o della famiglia Buttarelli in via De’ Genovesi riproducente Greccio e il presepe di S. Francesco o quello di Padre Bonelli nel Portico della Chiesa dei Santi XII Apostoli, parzialmente meccanico con la ricostruzione del lago di Tiberiade solcato dalle barche e delle città di Gerusalemme e Betlemme. Dal XVII secolo il presepe iniziò a diffondersi anche nelle case dei nobili sotto forma di “soprammobili” o di vere e proprie cappelle in miniatura anche grazie all’invito del papa durante il Concilio di Trento poiché ammirava la sua capacità di trasmettere la fede in modo semplice e vicino al sentire popolare.
A Bologna venne istituita la Fiera di Santa Lucia quale mercato annuale delle statuine prodotte dagli artigiani locali, che viene ripetuta ogni anno, ancora oggi, dopo oltre due secoli.
Oggi dopo l’affievolirsi della tradizione negli anni ‘60 e ‘70, causata anche dall’introduzione dell’albero di Natale, il presepe è tornato a fiorire grazie all’impegno di religiosi e privati che con associazioni come quelle degli Amici del Presepe, Musei tipo il Brembo di Dalmine di Bergamo, Mostre, tipica quella dei 100 Presepi nelle Sale del Bramante di Roma; dell’Arena di Verona, rappresentazioni dal vivo come quelle della rievocazione del primo presepio di S. Francesco a Greccio e i presepi viventi di Rivisondoli in Abruzzo o Revine nel Veneto e soprattutto la produzione di artigiani presepisti, napoletani e siciliani in special modo, eredi delle scuole presepiali del passato, hanno ricondotto nelle case e nelle piazze d’Italia la Natività e tutti i personaggi della simbologia cristiana del presepe.

Simbologia e origine delle ambientazioni
L’iconografia del presepio ebbe un impulso nel Quattrocento grazie ad alcuni grandi maestri della pittura: il Botticelli nell’Adorazione dei Magi (Firenze, Galleria degli Uffizi) raffigurò personaggi della famiglia Medici. Il presepe moderno indica una ricostruzione tradizionale della natività di Gesù Cristo durante il periodo natalizio: si riproducono quindi tutti i personaggi e i posti della tradizione, dalla grotta alle stelle, dai Re Magi ai pastori, dal bue e l’asinello agli agnelli, e così via. La rappresentazione può essere sia vivente che iconografica. Attualmente, si vanno diffondendo anche i presepi meccanici, con movimento sincronizzato dei personaggi.
Il presepe è una rappresentazione ricca di simboli, alcuni di questi provengono direttamente dal racconto evangelico: sono riconducibili al racconto di Luca la mangiatoia, l’adorazione dei pastori e la presenza di angeli nel cielo. Altri elementi appartengono ad una iconografia propria dell’arte sacra: Maria ha un manto azzurro che simboleggia il cielo, San Giuseppe ha in genere un manto dai toni dimessi a rappresentare l’umiltà.
Molti particolari scenografici nei personaggi e nelle ambientazioni del presepe traggono inoltre ispirazione dai Vangeli apocrifi e da altre tradizioni. Il bue e l’asinello, simboli immancabili di ogni presepe aggiunti da Origene, derivano dal cosiddetto protovangelo di Giacomo oppure da un’antica profezia di Isaia che scrive “Il bue ha riconosciuto il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone”. Sebbene Isaia non si riferisse alla nascita del Cristo, l’immagine dei due animali venne utilizzata comunque come simbolo degli ebrei (rappresentati dal bue) e dei pagani (rappresentati dall’asino).
Anche la stalla o la grotta in cui Maria e Giuseppe avrebbero dato alla luce il Messia non compare nei Vangeli canonici: sebbene Luca citi i pastori e la mangiatoia, nessuno dei quattro evangelisti parla esplicitamente di una grotta o di una stalla. In ogni caso a Betlemme la Basilica della Natività sorge intorno a quella che è indicata dalla tradizione come la grotta ove nacque Cristo e anche quest’informazione si trova nei Vangeli apocrifi. Tuttavia, l’immagine della grotta è un ricorrente simbolo mistico e religioso per molti popoli soprattutto del settore mediorientale: del resto si credeva che anche Mitra, una divinità persiana venerata anche tra i soldati romani, fosse nato da una pietra.
I Magi invece derivano dal Vangelo di Matteo e dal Vangelo armeno dell’infanzia. In particolare, quest’ultimo fornisce informazioni sul numero e il nome di questi sapienti orientali: fa i nomi di tre sacerdoti persiani (Melkon, Gaspar e Balthasar), anche se non manca chi vede in essi un persiano (recante in dono oro, simbolo della regalità), un arabo meridionale (recante l’incenso, simbolo della divinità) e un etiope (recante la mirra, simbolo dell’umanità e della passione).
Così i re magi entrarono nel presepe, sia incarnando le ambientazioni esotiche sia come simbolo delle tre popolazioni del mondo allora conosciuto, ovvero Europa, Asia e Africa. Anche il numero dei Magi fu piuttosto controverso, venne definitivamente stabilito in tre, come i doni da loro offerti, da un decreto papale di Leone I Magno, mentre prima di allora oscillava fra due e dodici, con una duplice interpretazione, quali rappresentanti delle tre età dell’uomo: gioventù, maturità e vecchiaia e delle tre razze in cui si divide l’umanità: la semita, la giapetica e la camita secondo il racconto biblico.
Ancora gli angeli, esempi di creature superiori, Maria e Giuseppe, rappresentati a partire dal XIII secolo in atteggiamento di adorazione proprio per sottolineare la regalità dell’infante, e infine i pastori come l’umanità da redimere: già al momento della sua nascita, come avverrà anche alla sua morte, Gesù si mostra per primo ai peccatori. Gesù disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori». (Marco 2, 17) E infatti, così come avviene per i samaritani, anche i pastori erano una categoria malfamata per il popolo ebreo e proprio a loro il Messia si mostra per primo.
Tuttavia, alcuni aspetti derivano da tradizioni molto più recenti. Il presepe napoletano, per esempio, aggiunge alla scena molti personaggi popolari, osterie, commercianti e case tipiche dei borghi agricoli, tutti elementi palesemente anacronistici. Tra le più recenti rappresentazioni della Natività non è difficile ammirare delle opere di artisti contemporanei ambientate in luoghi particolari come grattacieli ultramoderni o periferie di metropoli, riconoscendo tra i tanti pastori alcuni personaggi famosi e ogni anno ne vengono aggiunti di nuovi: da Clinton a Ciampi, da Totò a Troisi etc. Un presepe genovese, in particolare, ha in sé una singolare autocitazione: raffigura, infatti, un gruppo di popolane intente a vendere materiali per realizzare presepi. Questa è comunque una caratteristica di tutta l’arte sacra, che, almeno fino al XX secolo, ha sempre rappresentato gli episodi della vita di Cristo con costumi ed ambientazioni contemporanee all’epoca di realizzazione dell’opera. Anche questi personaggi sono spesso funzionali alla simbologia. Ad esempio il male è rappresentato nell’osteria e nei suoi avventori, mentre il personaggio di Ciccibacco, che porta il vino in un carretto con le botti, impersona il Diavolo. Nel presepe bolognese, invece, vengono aggiunti alcuni personaggi tipici, la Meraviglia, il Dormiglione e, di recente, la Curiosa.
In Italia i presepi si differenziano da regione a regione piuttosto per i diversi prodotti e materiali utilizzati per ricreare la scena della nascita del bambino Gesù. Il presepe napoletano o partenopeo si caratterizza per la costruzione di pastori in terracotta, il presepe genovese si realizza con pastori in legno, il presepe pugliese utilizza la carta pesta per realizzare il prodotto finito, il presepe siciliano viene realizzato con l’aggiunta di prodotti tipici siciliani, come rami d’arancio e di mandarino e sul quale si utilizzano diversi materiali come corallo, madreperla ed alabastro, tutti prodotti tipici della Sicilia. Un museo del presepe a Palazzolo Acreide accoglie le realizzazioni artistiche dell’avv. Giovanni Leone che ha incastonato la Natività in tre differenti ambientazioni locali. Il presepio Trentino è imparentato con le sculture lignee del Tirolo e trova una tipica ambientazione in alcune produzioni caratteristiche e originali, soprattutto nelle valli laterali dell’Adige come testimoniano tra gli altri i presepi di Tesero, in valle di Fiemme.

La tradizione dei larii
Per comprendere la tradizione e la genesi del moderno presepe, può essere utile ricordare la figura del lari (lares familiares), profondamente radicata nella cultura etrusca e latina.
I lari erano gli antenati defunti che, secondo le tradizioni romane, vegliavano sul buon andamento della famiglia. Ogni antenato veniva rappresentato con una statuetta, di terracotta o di cera, chiamata sigillum (da signum = segno, effigie, immagine).
Le statuette venivano collocate in apposite nicchie e, in particolari occasioni, onorate con l’accensione di una fiammella, consuetudine odierna per la ricorrenza dei defunti. In prossimità del solstizio d’inverno si svolgeva la festa detta Sigillaria (20 dicembre), durante la quale i parenti si scambiavano in dono i sigilla dei familiari defunti durante l’anno. In attesa della festa, il compito dei bimbi delle famiglie riunite nella casa patriarcale, era di lucidare le statuette e disporle, secondo la loro fantasia, in un piccolo recinto nel quale si rappresentava un ambiente bucolico in miniatura. Nella vigilia della festa, dinnanzi al recinto, la famiglia si riuniva per invocare la protezione degli avi e lasciare ciotole con cibo e vino. Il mattino seguente, al posto delle ciotole, i bambini trovavano giocattoli e dolci, “portati” dai loro trapassati nonni e bisnonni (altra usanza ancora viva nelle regioni italiche del meridione).
Dopo l’assunzione del potere nell’impero (IV secolo), i cristiani tramutarono alcune feste tradizionali in feste cristiane, mantenendone parte dei riti e delle date, ma mutando i nomi e i significati religiosi. Essendo una tradizione molto antica e particolarmente sentita (perché rivolta al ricordo dei familiari defunti), la rappresentazione dei larii sopravvisse nella cultura rurale con parte del significato originario almeno fino al XV secolo e, in alcune regioni italiane, anche oltre.

domenica 11 novembre 2012

Il mantello di San Martino

Se dovessimo distinguere Martino in mezzo agli altri risulterebbe alquanto difficile, è quasi sempre rappresentato nella scena più conosciuta della sua vita: il taglio del mantello!

Venerato come santo dalla Chiesa cattolica, dalla Chiesa ortodossa e da quella copta. È uno tra i primi santi non martiri proclamati dalla Chiesa. Era nativo di Sabaria Sicca (l'odierna Szombathely), in Pannonia (oggi Ungheria). La ricorrenza cade l'11 novembre, giorno dei suoi funerali a Tours. Il padre, un ufficiale dell'esercito dell'Impero Romano residente in Pannonia, gli diede il nome di Martino in onore di Marte, il dio della guerra. Con la famiglia il giovane Martino si spostò a Pavia, dove trascorse la sua infanzia e dove, contro la volontà dei suoi genitori, cominciò a frequentare le comunità cristiane. A quindici anni, in quanto figlio di un ufficiale, dovette entrare nell'esercito e venne quindi inviato in Gallia.
Quando Martino era ancora un militare, ebbe la visione che divenne l'episodio più narrato della sua vita e quello più usato dall'iconografia e dalla aneddotica. Si trovava alle porte della città di Amiens con i suoi soldati quando incontrò un mendicante seminudo. D'impulso tagliò in due il suo mantello militare e lo condivise con il mendicante. Quella notte sognò che Gesù si recava da lui e gli restituiva la metà di mantello che aveva condiviso. Udì Gesù dire ai suoi angeli: «Ecco qui Martino, il soldato romano che non è battezzato, egli mi ha vestito». Quando Martino si risvegliò il suo mantello era integro. Il mantello miracoloso venne conservato come reliquia ed entrò a far parte della collezione di reliquie dei re Merovingi dei Franchi. Il termine latino per "mantello corto", cappella, venne esteso alle persone incaricate di conservare il mantello di san Martino, i cappellani, e da questi venne applicato all'oratorio reale, che non era una chiesa, chiamato cappella.

mercoledì 31 ottobre 2012

Halloween e Ognissanti


Sono passati pochi anni dall’introduzione della festa di Halloween e già si è bene ambientata nella nostra cultura, grazie anche alle varie promozioni commerciali che l’hanno accompagnata. I più grandicelli la ricordano come una festa tipicamente americana, spesso vista in qualche film magari horror, essa tuttavia ha antichissime radici europee addirittura di epoche precristiane. Sembra infatti risalire al 4000 a.C. quando le popolazioni tribali usavano dividere l’anno in due parti in base alla transumanza del bestiame: nel periodo fra ottobre e novembre la terra si prepara all’inverno ed era necessario, come lo è anche adesso, ricoverare il bestiame in luogo chiuso per garantirgli la sopravvivenza alla stagione fredda.
La ricorrenza si diffonde con i Celti (all’incirca nel 2300 a.C.) che iniziano a spostarsi dall’area del Mar Mediterraneo fino alle coste più settentrionali nelle isole Britanniche. Loro festeggiavano la fine dell’estate con Samhain, il loro capodanno, che in gaelico significa infatti “fine dell’estate”. A sera tutti i focolari venivano spenti e riaccesi dal sacro falò curato dai Druidi a Tlachtga, vicino alla reale collina di Tara.
Nella dimensione ciclica del tempo seguita dai Celti, Samhain si trovava in un punto fuori dalla dimensione temporale, che non apparteneva né all’anno vecchio e neppure al nuovo: in questo momento il velo che divideva dalla terra dei morti si assottigliava ed i vivi potevano accedervi. Credevano che il 31 ottobre, l’ultimo giorno dell’anno secondo l’antico calendario celtico, il signore della morte radunava le anime dei defunti che dovevano essere fatti entrare nel corpo degli animali e decideva quale forma dovessero prendere l’anno seguente. I gatti vennero ritenuti sacri poiché si credeva che una volta erano esseri umani trasformati per cattive azioni. I celti non temevano i propri morti e lasciavano per loro del cibo sulla tavola in segno di accoglienza per quanti facessero visita ai vivi: da qui l’usanza americana del trick or treating, il “dolcetto o scherzetto” che conosciamo.
Oltre a non temere gli spiriti dei defunti, i Celti non credevano nei demoni quanto piuttosto nelle fate e negli elfi, entrambe creature considerate però pericolose: le prime per un supposto risentimento verso gli esseri umani; i secondi per le estreme differenze che intercorrevano appunto rispetto all’uomo.
Secondo la leggenda, nella notte di Samhain questi esseri erano soliti fare scherzi anche pericolosi agli uomini e ciò ha fatto nascere e perpetuarsi molte altre storie terrificanti spesso riprese dalla cinematografia fantasy e horror che gli ha attribuito l’appellativo di “notte delle streghe”.
I Romani cercarono di sovrapporvi la festa del raccolto dedicata a Pomona (la dea dei frutti degli alberi) nel tentativo di staccare il popolo britannico dal legame con i Druidi, la loro casta di sacerdoti-re-guerrieri. Sebbene i druidi furono messi fuori legge dai romani durante il loro governo della Britannia, le tradizioni di Halloween di origine druidica si diffusero in Irlanda, Scozia e Inghilterra. L’uso di frutti e nocciole per Halloween fu derivato dalla festa romana di Pomona.
Anche il Cristanesimo tentò di incorporare le vecchie festività pagane dando loro una connotazione compatibile con il suo messaggio e papa Bonifacio IV istituì la festa di tutti i santi, collocandola nel medesimo periodo di Samhain. Le popolazioni celtiche cominciarono a non fare più differenza tra le due e già nel 1500 si era quasi del tutto persa la memoria della vecchia tradizione, anche grazie alla politica della chiesa di Roma volta a sopprimere ogni festa di tipo pagano legata a questa ricorrenza.
Nei paesi di lingua anglosassone la festa divenne Hallowmas (1 novembre) che significa: una messa in onore dei santi; la vigila divenne Hallows Eve (31 ottobre) che si trasformò nel nome attuale: Halloween. Coloni e immigrati portarono le loro tradizioni con sé negli Stati Uniti.
Nella prima metà del secolo la connotazione di “notte degli scherzi” o “notte del diavolo” porta spesso la gente ad abbandonarsi all’anarchia con ricorrenti gli atti di vandalismo; oggi tuttavia la festa viene particolarmente combattuta dalla Chiesa per i suoi possibili richiami al mondo dellocculto.
Dopo il secondo conflitto mondiale i bambini si impossessarono della festa, anche grazie alle aziende, che dedicarono loro tutta una serie di costumi, dolci e gadget trasformandola in un grosso affare commerciale ed in una specie di “carnevale d’inverno”.
Col tempo la festa ha aggiunto altre tradizioni più moderne di cui la più nota rimane tuttavia quella delle zucche svuotate e intagliate con una candela accesa al loro interno seguendo la leggenda di Jack Lanterna. La tradizione di intagliare zucche con volti minacciosi e porvi luci all’interno nasce dall’idea che i defunti vaghino per la terra con dei fuochi in mano e cerchino di portare via con se i vivi: è bene quindi che i vivi si muniscano di una faccia orripilante con un lume dentro per ingannare i morti, divenuto il simbolo della festa, che gli americani chiamano appunto Jack o’ lantern.
Da noi vige l’usanza che i morti portino durante la notte dei doni ai bambini, così come avviene per Santa Lucia, Babbo Natale e la Befana, in alcune località durante la notte che volge al primo novembre mentre in altre durante la notte che volge al 2 novembre, ricorrenza dei fedeli defunti. Un’antica tradizione vuole che durante la notte che precede il 2 novembre e quella che segue, passata la mezzanotte non si debba andare in giro. Si corre il rischio di incontrare le anime defunte che tornano alle loro antiche case per poi ritornare la notte seguente alla loro dimora. Come si può ben vedere anche le nostre tradizioni hanno i loro spiriti. Se poi si vuol tenere conto del nostro spirito festoso e consumistico si ricorda la tradizionale fiera dei morti che si svolge ogni anno a Siracusa, un’occasione per andare fra le variegate bancarelle ad acquistare dolci e giocattoli per i nostri bambini. 
Da qualche anno le riviste di cucina si popolano di "mostruose" preparazioni di Halloween, come biscotti a forma di fantasmini, muffin e torte decorati con ragni, pipistrelli e cappelli di streghe (spesso in pasta di zucchero), bignole salate ribattezzate cervelli di zombie, ma l'elemento che spopola fra tutti sono le dita di strega, sia nella versione dolce che in quella salata.

sabato 29 settembre 2012

San Michele l’angelo guerriero


Capo delle milizie celesti in lotta contro il male, insieme con Gabriele e Raffaele è uno dei sette arcangeli che stanno di fronte al trono di Dio.
Il nome, come tanti altri dell’onomastica ebraica (tra cui anche gli altri due arcangeli), ha carattere teoforico, cioè porta in sé il nome di Dio; deriva infatti dalla frase mi kha El? che significa “chi (è) come Dio?”, il grido di battaglia dell’Arcangelo nella lotta contro i demoni. El è infatti l’abbreviazione di “Elhoim”, “Dio”, che per gli ebrei non può essere scritto interamente. Attraverso il greco antico giunge alla lingua latina dove il nome diviene Michaelem, mentre il grido è tradotto in Quis ut Deus?, frase che appare spesso nell’iconografia e nelle decorazioni a lui riferite.
Il culto dell’Arcangelo Michele è di origine orientale, fu l’imperatore Costantino I a partire dal 313 d.C. a tributargli una particolare devozione, mentre alla fine del V secolo abbiamo l’apparizione dell’arcangelo sul Monte Gargano in Puglia, ove sorge tutt’oggi il santuario a lui dedicato. Nel 590, papa Gregorio I vide apparire su Castel Sant’Angelo San Michele che deponeva la spada nel fodero, segno che la terribile epidemia sarebbe cessata, apparve ancora nel 709 a sant’Uberto, vescovo di Avranches, chiedendo che gli fosse costruita una chiesa sulla roccia dell’isolotto francese di Mont Saint-Michel.
Infine è anche presente nella “Chanson de Roland” ove è chiamato San Michele del Mare del Periglio, poiché salva gli uomini dal peccato o mare del pericolo, quando viene a prendere l’anima di Orlando insieme a San Gabriele e ad un cherubino.
L’iconografia bizantina predilige l’immagine dell’arcangelo in abiti da dignitario di corte (con il loron) rispetto a quella del guerriero che combatte il demonio o che pesa le anime, più adottata invece in Occidente.
Riguardo a quest’ultima abbiamo due differenti correnti, la prima si riferisce ai passi dell’Apocalisse e si rifà al periodo medievale: è quasi sempre raffigurato come guerriero alato che incalza il drago dalle sette teste raffigurante Satana (Ap 12, 7-9), l’immagine ricorre molto frequentemente nelle chiese dedicate a San Michele. Egli indossa una cotta di maglie ed è armato di uno scudo (su cui è inciso il motto Quis ut Deus), e di una spada o di una lancia, o di entrambe. Sotto ai piedi del Santo che sta per ucciderlo, rappresentato come drago, si trova Satana. Una variante a questo schema è rappresentata dal diavolo, con fattezze umane ed ali di drago, caduto tra le fiamme. L’immagine più conosciuta è quella dipinta dal bolognese Guido Reni in cui l’Arcangelo, con la spada alzata sulla destra che punta la sua vittima, è sul punto d’uccidere il demonio a cui schiaccia la testa col piede sinistro, mentre sulla mano sinistra tiene delle catene. Ripresa poi successivamente dagli altri pittori, alcune volte con la bilancia al posto delle catene.
Certamente ispirato al prototipo reniano è l’olio su tela del pittore messinese Antonino Bova collocato sull’altare maggiore della chiesa di San Michele a Palazzolo Acreide, datato tra l’ottavo e il nono decennio del Seicento. Il simulacro che si conserva dietro questa pala d’altare presenta invece il Santo con l’armatura d’oro, la spada e lo scudo, mentre il demonio sotto i piedi ha una colorazione molto scura.
Solitamente l’Arcangelo è privo di elmo con i capelli al vento, le poche varianti con l’elmo, come quella della vicina cittadina di Canicattini Bagni, sono certamente da far risalire all’altra corrente iconografica riferita al culto dei sette Arcangeli.
Questa sorse a Palermo per la devozione del prete cefaludense Antonio Duca, quando nella vecchia chiesa di S. Arcangelo al Cassero di Palermo vennero scoperte sull’intonaco le immagini dei sette angeli con i loro nomi e attributi, fu da questo diffusa anche a Roma con tanta perseveranza da far riuscire a consacrare a Pio IV nel 1561 la grande sala delle terme di Diocleziano trasformata in chiesa da Michelangelo e dedicata appunto a S. Maria degli Angeli.
Questo filone iconografico, come aveva descritto lo stesso Antonio Duca, presente Michele, definito vittorioso, che veste la corazza e porta il vessillo bianco con la croce rossa; Gabriele, nunzio, ha una lanterna ed uno specchio di diaspro coperto di macchie rosse; Raffaele, medico, tiene una pisside e conduce per mano Tobiolo che porta un pesce; Barachiele, auditore, porta una rosa bianca dentro il mantello; Ieuridiele, remuneratore, porta con la destra una corona d’oro e con la sinistra il flagello; Uriele, forte compagno, trafitto nel petto da una nuda spada, poggia su una fiamma; Salitiele, orante, tiene le mani incrociate sul petto in atto di pregare.
La Chiesa tuttavia non aveva mai approvato ufficialmente il culto dei sette Arcangeli, di cui quattro erano apocrifi, e approvò soltanto l’iconografia dei santi Michele, Gabriele e Raffaele. La raffigurazione dei sette Arcangeli tuttavia continuerà comunque ad essere riprodotta, togliendo nomi ed attributi agli angeli apocrifi e traslando l’iconografia dei sette angeli in piedi davanti a Dio di cui parla il libro di Tobia. Con questa accezione sono raffigurati da Federico Zuccari nella cappella degli Angeli nella chiesa del Gesù a Roma, in contemplazione dinnanzi alla Trinità, e come tali compaiono anche in una tela ad olio del pittore messinese Antonio Catalano il vecchio, presente nella navata laterale della Chiesa del Collegio a Siracusa.
La piramide angelica ha qui alla base, riconoscibili dai loro attributi, l’Arcangelo Gabriele a sinistra, e a destra Raffaele, e culmina con la trionfale figura di Michele, che indossa elmo e corazza e imbraccia lo scudo, recando nella destra il lungo vessillo ondeggiante.
San Michele viene anche rappresentato nell’atto di pesare i morti (psicostasia), per stabilire la loro giusta ricompensa, elemento che presenta equivalenti già nelle religioni greca (Mercurio) ed egizia. Nell’iconografia cristiana viene normalmente ritratto con in mano una bilancia che ha su ciascun piatto un’anima, rappresentata come una minuscola figurina umana ignuda. Una è più pesante dell’altra, sebbene non vi sia accordo tra gli artisti su quale pesi di più, se quella dell’eletto o quella del dannato; un motivo particolare mostra un demone che di soppiatto fa pendere la bilancia a proprio favore. In quanto pesatore di anime San Michele riveste un ruolo centrale nelle scene del Giudizio Universale.
Compare anche in numerose altre opere, associato spesso ad altri santi o ai committenti dell’opera stessa, ad esempio ai piedi della Vergine, come nelle raffigurazioni di S. M. dell’Incoronata di Foggia, e perfino in un transito di San Giuseppe, pronto ad accogliere l’anima del padre putativo del Messia.
I suoi attributi iconografici principali sono quindi la spada e la bilancia a due bracci.
La spada è, in primo luogo, il simbolo della condizione militare e della sua virtù, l’ardimento, come della sua funzione, la potenza. Nelle tradizioni cristiane la spada è l’arma nobile, che appartiene ai cavalieri e agli eroi cristiani. Quale guerriero di Dio e vincitore delle potenze infernali, l’Arcangelo Michele ha spesso una spada tra le mani, qualche volta pure fiammeggiante. Si tratta della “fiamma della spada folgorante” posta, nella Genesi, a guardia dell’Eden, che John Milton, nel suo poema Il Paradiso perduto, identifica con San Michele.
La spada è inoltre, nel doppio aspetto costruttivo e distruttivo, un simbolo del Verbo, della Parola, «la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio» (Ef. 6,17). La spada affilata a doppio taglio che esce dalla bocca di Cristo (Ap. 1,16) è il simbolo della forza invincibile e della verità celeste che, come un fulmine, scendono dal cielo e rappresenta il potere di giudizio. Associata alla bilancia si riferisce specialmente alla giustizia: separa il bene dal male, colpisce il colpevole.
La bilancia è in generale il simbolo della giustizia e del retto comportamento, ed in particolare della misura, della prudenza, dell’equilibrio, del confronto fra azioni ed obblighi perché serve a soppesare gli atti; associata alla spada indica la Giustizia che si accompagna alla Verità.
L’armatura, insieme alla spada, è attributo della condizione militare di soldato e Michele è il principe delle milizie celesti, colui che lotta contro il maligno sin dalla creazione.
Lo scudo è un altro attributo del combattente, è «lo scudo della fede, con il quale… spegnere tutti i dardi infuocati del maligno» (Ef. 6, 16). Viene considerato un attributo secondario in quanto poco diffuso ed alternativo alla bilancia quasi sempre presente.
Le catene che porta in mano, altro attributo secondario, rappresentano la schiavitù dal peccato che imprigiona l’uomo condannandolo alla dannazione eterna.
La lancia è, come la spada di cui rappresenta una stilizzazione, un altro attributo del milite, un’arma di lotta, per essa vale quanto detto per lo scudo in quanto sostituta della spada.
I simboli iconografici presenti nelle varie decorazioni delle chiese presentano la spada che incrocia la bilancia a due bracci, qualche volta, per motivi estetici, le spade diventano due incrociate tra loro che si sovrappongono alla bilancia a due bracci, mentre di rado è presente lo scudo. Sovente si può invece leggere la sua iscrizione latina: QVIS VT DEVS.
Sarà possibile appurare tutti questi aspetti visitando le chiese, non solo durante il periodo della festa, ma anche le domeniche ed i feriali intorno all’orario delle celebrazioni liturgiche.

[ Da “San Michele l'arcangelo guerriero”, pag. 16 del bimestrale « I Siracusani » n. 65, Anno XII,  settembre-ottobre 2008 ]

mercoledì 25 luglio 2012

Giacomo il pellegrino

Ricorre oggi la festa di San Giacomo il maggiore, il fratello di Giovanni l'evangelista e io mi ero quasi scordato che, nelle mie ricerche sull'iconografia paolina, mi ero imbattuto nella sua figura: ecco cosa ho trovato.

Giacomo di Zebedeo o Jacopo o Iacopo, fu uno dei dodici apostoli di Gesù. Figlio di Zebedeo e di Salomè, era il fratello di Giovanni apostolo ed evangelista. Viene detto il Maggiore per distinguerlo dall'apostolo omonimo, Giacomo di Alfeo detto Minore. Secondo i vangeli sinottici Giacomo e Giovanni erano assieme al padre sulla riva del lago quando Gesù li chiamò per seguirlo. Stando al Vangelo secondo Marco, Giacomo e Giovanni furono soprannominati da Gesù Boanerghes (“figli del tuono”) per sottolineare l'inesauribile zelo di cui erano dotati questi apostoli, ma anche il loro temperamento impetuoso. Giacomo fu uno dei tre apostoli che assistettero alla trasfigurazione di Gesù, fu presente anche alla resurrezione della figlia di Giàiro e all’agonia di Gesù nell’orto del Getsemani. 
Una tradizione risalente almeno a Isidoro di Siviglia narra che Giacomo andò in Spagna per diffondere il Vangelo. Se questo improbabile viaggio avvenne, fu seguito da un ritorno dell'apostolo in Giudea, dove, agli inizi degli anni quaranta del I secolo il re Erode Agrippa I «cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa, e fece uccidere di spada Giacomo fratello di Giovanni». Giacomo fu il primo apostolo martire.
Dopo la decapitazione, secondo la Legenda Aurea, i suoi discepoli trafugarono il suo corpo e riuscirono a portarlo miracolosamente sulle coste della Galizia. Il sepolcro contenente le sue spoglie sarebbe stato scoperto nell'anno 830 dall'anacoreta Pelagio in seguito ad una visione luminosa. Il vescovo Teodomiro, avvisato di tale prodigio, giunse sul posto e scoprì i resti dell'Apostolo. Dopo questo evento miracoloso il luogo venne denominato campus stellae (“campo della stella”) dal quale deriva l'attuale nome di Santiago de Compostela, il capoluogo della Galizia. Eventi miracolosi segnarono la scoperta dell'Apostolo, come la sua apparizione alla guida delle truppe cristiane della Reconquista nell'840, durante la battaglia di Clavijo e in altre imprese belliche successive, in cui avrebbe versato talmente tanto sangue di musulmani da meritarsi nella fantasia popolare altomedievale il soprannome di Matamoros (Ammazzamori), che comunque gli rimarrà per sempre.
La tomba divenne meta di grandi pellegrinaggi nel Medioevo, tanto che il luogo prese il nome di Santiago (da Sancti Jacobi, in spagnolo Sant-Yago) e nel 1075 fu iniziata la costruzione della grandiosa basilica a lui dedicata.
Il pellegrinaggio a Santiago, lungo preferibilmente il suo "Cammino", divenne uno dei tre principali pellegrinaggi della Cristianità medievale. Gli altri erano quelli che portavano a Gerusalemme, alla tomba di Gesù e a Roma, alla tomba dell'apostolo Pietro, facendo assurgere la figura del vescovo di Santiago al livello delle più importanti figure della Cristianità.


Nella tradizione la figura di San Giacomo si articola in tre aspetti. La caratterizzazione fondamentale che lo indica come il campione del Cristianesimo in Spagna dove è veneratissimo è quella dell’apostolo, ma forse non è la più diffusa. Come tale la sua immagine è quella di un uomo maturo, severo, con la barba rada, i capelli divisi in cima alla testa e ricadenti in due spioventi simili a quelli che comunemente si attribuiscono a Cristo. Come attributo porta il libro, simbolo della predicazione del Vangelo, e la spada che fu lo strumento del suo martirio a Gerusalemme, ma può anche avere il bastone (bordone), simbolo del pellegrinaggio. Il simulacro venerato a Ferla presenta la spada.
Dal XIII secolo in poi San Giacomo ebbe anche la caratterizzazione del pellegrino per le connessioni con il suo sepolcro e la Via Lattea, per cui ha diversi attributi specifici primo tra i quali il cappello a larghe falde, parapioggia del tempo antico, tipico del viandante. L’altro era il bastone, strumento necessario per chi camminava un tempo per appoggiarsi, ma soprattutto per difendersi da animali e da malintenzionati. La bisaccia viene raffigurata a tracolla ovvero appesa al bastone: non è grande perché deve contenere solo lo stretto necessario a un viaggio devozionale di penitenza e meditazione. Talvolta nelle immagini compare anche la fiasca o il bariletto per l’acqua ottenuto dalla zucca, così per gli oggetti che accompagnano la sua figura è divenuto patrono dei cappellai e dei barilai. Il simbolo più noto che appartiene a San Giacomo come pellegrino è quello della conchiglia che porta come attributo ed è posta sul mantello, sul cappello oppure sulla bisaccia. È quindi il simbolo dei pellegrini che si recano al Santuario di Compostella. La Veronica era invece il simbolo dei pellegrini che si recavano a Roma, detti Romei: portavano l’immagine del volto di Cristo sopra l’abito, secondo la forma che si vuole sia stata impressa sul velo offerto dalla Veronica per detergere il sangue e il sudore di Cristo sulla via del Calvario. La palma invece distingueva i pellegrini che andavano a Gerusalemme ed erano detti palmieri.
La Cappasanta o conchiglia di San Giacomo (Pecten jacobaeus) è per eccellenza il simbolo del viandante e del pellegrino, in particolare simbolo del Pellegrinaggio nella città di Santiago de Compostela. È segno di vita e di rinascita, di purificazione (viene usata per versare l’acqua Santa durante il Battesimo), ma anche utile strumento per bere durante il cammino. Pare che il suo uso derivi dagli antichi pellegrini che si cibavano di cappesante e molluschi raccolti sulle spiagge galiziane e sulla costa di Finis Terrae (in lingua galiziana Fisterra) conservandone poi il guscio. La conchiglia di San Giacomo doveva essere cucita sul mantello o sul cappello ed era l’indicazione o il simbolo da mostrare a tutti che il Pellegrino aveva raggiunto e visitato la tomba di San Giacomo nella lontanissima e verdeggiante regione della Galizia nella penisola iberica. Nell’iconografia di San Giacomo la conchiglia è un elemento chiave (tanto che quel tipo particolare è stato chiamato proprio conchiglia di San Giacomo), insieme agli altri simboli del Santo pellegrino (bordone, fiasca fatta con una zucca cava, mappa e cappello da pellegrino, quello rosso con la larga falda). Sono tutti elementi realistici: erano oggetti che effettivamente i pellegrini portavano con sé, durante i lunghi viaggi verso i Santuari, perché erano loro utili.
Ma in merito c’è anche una leggenda: Teodosio e Attanasio, due discepoli di San Giacomo, portavano il corpo del Santo in Galizia; passato lo stretto di Gibilterra, seguirono le coste atlantiche sino a giungere in un luogo chiamato Bouzas.  Stavano celebrando le nozze di una coppia quando il cavallo dello sposo inciampò e cadde in acqua sprofondando immediatamente.   La gente già piangeva la loro morte quando sposo e cavallo emersero all’improvviso accanto alla barca che trasportava il corpo del Santo.  Cavallo e cavaliere uscirono con il corpo interamente tappezzato di conchiglie.  I discepoli fecero sapere alla gente che si trattava di un miracolo e che il corpo trasportato era quello di San Giacomo, quello che aveva predicato il vangelo nelle terre di Spagna.  Riconoscendo nell’accaduto la benevolenza dell’apostolo si assunse la conchiglia come simbolo del pellegrinaggio.

Il terzo aspetto di San Giacomo meno conosciuto da noi è quello del cavaliere, mentre nella Penisola Iberica è il più noto e il più importante, al punto che gli è stato dato l’epiteto di Matamoros, uccisore dei mori.
Fu la figura che polarizzò le forze degli spagnoli per la liberazione della loro patria dai mori invasori. La base di questo tema è la battaglia di Clavijo combattuta da Ramirez I delle Asturie contro i saraceni verso l’anno 844, liberando Calahorra, ponendo fine al tributo di 100 vergini da consegnare agli Emiri. Le sorti per i cristiani stavano volgendo al peggio quando nella notte San Giacomo apparve al re incoraggiandolo a combattere e promettendogli la vittoria. L’indomani il santo apparve sul campo di battaglia con le armi di cavaliere sopra un cavallo bianco e, postosi a capo delle schiere cristiane, le portò alla vittoria e da allora il grido di guerra dei combattenti spagnoli per la Reconquista della loro libertà fu Santiago!
Ed ecco che la spada sparisce ai piedi del Santo quale simbolo del suo martirio, sostituita nell’iconografia classica dal bastone simbolo del pellegrinaggio, per riapparire in quella spagnola nella mano destra in segno di incitamento alla battaglia. Nella basilica c’è la famosa statua di “Santiago Matamoros”, un’opera lignea del secolo XVIII che raffigura San Giacomo apostolo su un cavallo bianco, spada in mano e sovrastante un gruppo di terrorizzati arabi e berberi.
Allo stesso modo Ferdinando I re di Castiglia e di Leon combatté i saraceni con l’aiuto del celeste cavaliere conquistando Coimbra nel 1065 entrandovi trionfalmente proprio il 25 luglio.

Il sepolcro dell’Apostolo restava da secoli sconosciuto e abbandonato quando Giacomo, apparendo a Carlo gli dà precise indicazioni per ritrovarlo in Galizia, lo conforta a liberarlo dagl’infedeli rendendo sicure le strade che vi conducono in modo che tutte le genti confluiscano da ogni parte del mondo e vi trovino perdono e salvezza. L’imperatore pone mano alla spedizione, la porta a compimento e fonda la Cattedrale di Santiago.
Tema fondamentale di questo mito cristiano è il sogno di Carlo Magno che, come quello di Ramirez I delle Asturie, richiama il sogno di Costantino. Nella notte Giacomo appare all’Imperatore e gli addita la Via Lattea: un cammino fatto di stelle nel cielo: quello è il suo compito, cioè ristabilire il rapporto interrotto da Oriente a Occidente, unificare il mondo cristiano restaurando sulla terra quella strada che è tracciata nel cielo: «Dopo di te, dice l’Apostolo, tutti i popoli peregrinando da mare a mare andranno là a chiedere perdono a Dio delle colpe, canteranno le sue lodi e ammireranno le virtù e i miracoli e ciò sarà dai giorni del tuo regno fino alla fine del mondo».
Da questo testo è stata attinta la materia per comporre la Chanson de Roland, il poema nazionale francese.
La Via Lattea deve esser letta nel corpo dell’Europa per intenderla come la strada di Compostella. Molti popoli antichi l’hanno intesa come la strada del cielo e non pochi come la via dei morti per raggiungere (a Occidente) il loro ultimo destino. Nel mondo cristiano è detta Ponte delle Anime, Scala di San Giacomo di Galizia, o la Strada o Cammino di San Giacomo perché, accompagnate da tale Santo, tutte le anime devono salire lungo questo cammino dopo la morte. Essa è formata di spade, pugnali, coltelli, chiodi, spine e rovi nudi e irti sui quali l’anima cammina durante e dopo l’agonia. Questo grande dolore dura anche a lungo, secondo la gravità, il peso di colpe dell’anima che, tutta purificata, finalmente arriva alle porte del Paradiso. San Giacomo, con bordone e cappello da viaggiatore, accompagna il defunto confortandolo, quindi lo conduce aiutandolo e lasciandolo alla fine del cammino. È detta anche Ponte delle Anime secondo la credenza che sia il grande ponte tra il cielo e la terra che congiunge quello a questa. Sarebbe il punto più difficile che devono passare le anime per salire al Cielo. Qualcosa di simile si dice in certi luoghi anche dell’arcobaleno, mentre opportunamente si distingue: la Galassia sarebbe il ponte di coloro che devono espiare i peccati della vita, mentre l’arcobaleno sarebbe il ponte agevole, luminoso e felice per i bambini morti prematuramente.
Come il Cammino di Santiago termina ad una tomba, l’Iter Stellarum, il cammino delle stelle, è la via che conduce gli uomini all’Aldilà, termina ai confini dell’altro mondo e costituisce l’ultima prova che l’uomo, pellegrino della vita deve compiere prima che il suo compito sia terminato. Tanto era viva questa metafora del pellegrinaggio come bilancio dell’esistenza che i pellegrini, visitata Compostella, non mancavano di raggiungere sul mare la vicina Finis Terrae per avere la visione dell’estremo limite dell’Europa, l’orlo del mondo conosciuto.
La tradizione ha fiorito questo mito di semplici leggende come quella dell’Erba di San Giacomo: erba comune, detta anche matricale selvatico o senecio (Senecio Jacobaea). Si vuole che San Giacomo, patrono dei pellegrini, l’abbia lasciata lungo i bordi di ogni strada dove è passato perché servisse di medicina ai viandanti. Infatti medica le ferite ed è, sotto forma d’impiastro, benefico per l’angina, le fistole e i dolori. Oggi il Senecione di San Giacomo viene individuato come Jacobaea vulgaris.






domenica 8 aprile 2012

La dolce festa della Pasqua

La Pasqua, commemorazione della resurrezione di Gesù Cristo, è la principale festività della liturgia cristiana, molto sentita in varie culture ed in particolare nella tradizione siciliana.
Come narra il Nuovo Testamento, Cristo fu crocifisso alla vigilia della Pasqua ebraica. Il nome Pasqua risale appunto all’ebraico pesah, “passaggio” e deriva dalle istruzioni trasmesse da Dio a Mosè. Con tale nome gli ebrei ricordano il passaggio della schiavitù alla libertà, ma anche il passaggio dell’angelo sterminatore che uccise tutti i primogeniti del popolo egiziano: il popolo ebreo venne risparmiato segnando gli stipiti delle proprie abitazioni con il sangue dell’agnello che aveva sacrificato.
Questi aspetti vengono ripresi nella pasqua cristiana dove indica il “passaggio dalla schiavitù del peccato alla libertà della grazia divina per mezzo della purificazione ottenuta col sangue del Cristo, l’agnello innocente immolato sulla croce, come citato anche nel libro dell’Apocalisse.
Gli stessi simboli sopravvivono ancora oggi nell’uso di consumare carne di agnello o nel comprare dolci con tale forma o con decorazioni che la riportano.
Ad essi si associano fino a fondersi altri simboli come quello della colomba, simbolo di pace, ma anche di purezza (era l’offerta prescritta per i poveri durante il rito della purificazione al tempio).
La rinascita alla nuova vita liberi dal peccato originale, grazie al sacrificio messianico, ha fatto si che si associasse alla festa l’uovo quale simbolo (di origine pagana) di nuova vita che nasce. Ecco quindi spiegata la presenza dell’uovo nei festeggiamenti pasquali, con l’avvento del consumismo si è passati da consumo delle classiche uova, alla loro sostituzione con quelle di cioccolato, alcune anche artisticamente decorate.
Tutta l’area iblea è caratterizzata da numerose tradizioni e processioni caratteristiche che si svolgono nel corso della settimana santa. Nelle chiese, dopo la messa del giovedì santo, l’altare del Santissimo Sacramento viene adornato a festa con fiori e germogli di grano. In vari paesi si svolgono i riti della passione di Cristo il venerdì santo a cui la popolazione partecipa con sentita devozione. Il culmine dei festeggiamenti si raggiunge con le processioni del giorno di Pasqua, che caratterizzano alcuni borghi iblei, con cui si rappresenta la “Paci”, ovvero la rappresentazione dell'incontro tra Maria, libera dal lutto, e Gesù risorto. La Pasqua rappresenta l’occasione di far festa un po’ in tutte le culture, la tradizione della cucina siciliana è piena di preparazioni tipiche di questa festa, soprattutto in campo dolciario.
C’è tuttavia da notare che in passato non tutti si potevano permettere i sontuosi dolci che oggi conosciamo. La dicotomia economica che si riscontrava in passato nella popolazione si rifletteva certamente in una dualità culinaria caratterizzata da differenti preparazioni: mentre la parte benestante della popolazione si poteva permettere cibi raffinati e dolci sontuosi come gli agnelli pasquali o le cassate siciliane spesso preparati nei monasteri, la maggioranza della popolazione apparteneva all’ambiente rurale. Questa tuttavia non rappresentava una limitazione ai festeggiamenti in tavola. La cucina siciliana di origine contadina si caratterizza per la semplicità degli ingredienti usati, come le verdure, ed anche per il largo uso della fantasia personale che la rende davvero molto ricca e saporita. In occasione delle festività pasquali le massaie erano solite preparare la “jaddina cina” (gallina ripiena), una ricetta siracusana preparata per le festività importanti come la Pasqua o il Natale, la gallina veniva dissossata, riempita con il riso condito, cucita e lessata in acqua salata.
Una delle tante tradizioni sono i “cuddure, aceddi e pupi cull’ova”‚ sono di varie forme come bambola, cavalluccio, panierino, porcospino, ecc. fatte con la pasta del pane che contengono uova sode e decorate con la stessa pasta. Questi pani augurali di Pasqua si regalavano alla fidanzata o ai bambini, i cavallucci ed i porcospini ai maschietti, le bamboline ed i panierini alle femminucce.
Il pane di casa è una delle ricette più antiche della cucina tradizionale, simbolo della millenaria tradizione agricola siciliana, si caratterizza per essere fatto con il “criscente” ovvero il lievito naturale che permette all’impasto di farina e acqua di lievitare e quindi di renderlo più digeribile, e cotto nei tradizionali forni a legna in pietra.
Un’altra tradizione sono i “picureddi”, dolci a base di pasta reale, a forma di agnello con una posa classica ovvero sdraiato su un fianco, sopra un prato verde disseminato di confettini multicolori, con una banderuola rossa simile a quella che nell’iconografia sacra è in mano a San Giovanni, infilzata sul dorso.  Queste forme ad agnello sono realizzate con la pasta reale detta anche Martorana, poiché  furono le suore del Monastero della Martorana di Palermo a tramandare l’arte di questi frutti di marzapane dalle forme e dai colori più disparati, lucidati con gomma arabica. La pasta reale altro non è che un composto realizzato con pasta di mandorle dolci, albume d’uovo e zucchero. Il nome deriva dall’arabo Mauthaban  che originariamente indicava una moneta, poi un'unità di misura, quindi lo stesso contenitore del marzapane.
In occasione delle ricorrenze pasquali, le nostre nonne preparavano anche tradizionali “viscotta” fatti in casa con l’ausilio di antiche ricette: biscotti di mandorla, biscotti al latte, biscotti di pasta dura con la forma di colombe, “ciascuna” con ripieno di fichi e  “cassateddi” di ricotta.
I “cassateddi ri ricotta” o “cassateddi i Pasqua” o “lumiere”, da non confondere con la tradizionale cassata siciliana anch’essa mangiata il giorno di Pasqua, sono delle preparazioni a base di pasta dolce a forma di piccolo recipiente riempite con ricotta condita con cannella e cioccolato.
Spesso tali preparazioni avvenivano in quantità limitata, correndo anche il rischio di rimanerne senza come testimoniato anche dal detto “cu n’appi n’appi cassateddi i Pasqua” (chi ne ha avute ne ha avute cassatine di ricotta), ma solamente i più poveri non potevano permettersele neanche per il giorno di Pasqua, “mischìnu cu nun manciàu cassàti ’a matìna ’i Pasqua” (povero chi non ha mangiato cassate la mattina di Pasqua”.
Oggi che la nostra cultura culinaria è orientata verso il “già pronto”, alcune di queste antiche tradizioni, non riprese dalle pasticcerie come i “pupi cull’ova”, sopravvivono ormai solo nei libri e nei ricordi degli anziani, correndo il rischio di svanire per sempre.


[ Da “Pasqua, alla ricerca delle radici e origini cristiane”, pag. 12 del quotidiano « Libertà » n. 90 di domenica 16 aprile 2006 ]

martedì 14 febbraio 2012

San Valentino e San Faustino: a ciascuno la sua festa!

Febbraio fa subito venire in mente il carnevale, ma in questo mese cade pure una festa che spesso i maschietti dimentichiamo, con buona pace delle nostre compagne che puntualmente ce la fanno pagare. Il 14 febbraio si festeggia San Valentino, il patrono degli innamorati e degli amanti e quindi il Santo dell’amore, ricorrenza particolarmente a cuore a tutte le donne, quelle impegnate, quelle innamorate e quelle che vorrebbero esserlo.
La più antica notizia di San Valentino è in un documento ufficiale della Chiesa dei secc.V-VI, ancora nel sec. VIII un altro documento ci narra alcuni particolari del martirio: la tortura, la decapitazione notturna e la sepoltura ad opera dei discepoli Proculo, Efebo e Apollonio; altri testi del sec. VI, raccontano che San Valentino, vescovo di Terni dal 197, venne invitato a Roma da un certo Cratone perché gli guarisse il figlio infermo da alcuni anni. Guarito il giovane, lo convertì al cristianesimo insieme alla famiglia, ai greci Proculo, Efebo e Apollonio ed al figlio del Prefetto. Imprigionato sotto l’Imperatore Aureliano fu decollato a Roma il 14 febbraio 273, il suo corpo fu trasportato a Terni al LXIII miglio della Via Flaminia.
Sono molte le leggende agiografiche, entrate a far parte della cultura popolare, su episodi riguardanti la vita di questo santo, ecco di seguito quelle più famose.
Leggenda dell'Amore Sublime
Questa leggenda narra di un giovane centurione romano di nome Sabino che, passeggiando per una piazza di Terni, vide una bella ragazza di nome Serapia e se ne innamorò follemente.
Sabino chiese ai genitori di Serapia di poterla sposare ma ricevette un secco rifiuto: Sabino era pagano mentre la famiglia di Serapia era di religione cristiana. Per superare questo ostacolo, la bella Serapia suggerì al suo amato di andare dal loro vescovo Valentino per avvicinarsi alla religione della sua famiglia e ricevere il battesimo, cosa che lui fece in nome del suo amore.
Purtroppo, proprio mentre si preparavano i festeggiamenti per il battesimo di Sabino (e per le prossime nozze), Serapia si ammalò di tisi. Valentino fu chiamato al capezzale della ragazza oramai moribonda. Sabino supplicò Valentino affinché non fosse separato dalla sua amata: la vita senza di lei sarebbe stata solo una lunga sofferenza. Valentino battezzò il giovane, ed unì i due in matrimonio e mentre levò le mani in alto per la benedizione, un sonno beatificante avvolse quei due cuori per l'eternità.
Leggenda della Rosa della Riconciliazione
Un giorno San Valentino sentì passare, al di là del suo giardino, due giovani fidanzati che stavano litigando. Decise di andare loro incontro con in mano una magnifica rosa. Regalò la rosa ai due fidanzati e li pregò di riconciliarsi stringendo insieme il gambo della rosa, facendo attenzione a non pungersi e pregando affinché il Signore mantenesse vivo in eterno il loro amore.
Qualche tempo dopo la giovane coppia tornò da lui per invocare la benedizione del loro matrimonio. La storia si diffuse e gli abitanti iniziarono ad andare in pellegrinaggio dal vescovo di Terni il 14 di ogni mese. Il 14 di ogni mese diventò così il giorno dedicato alle benedizioni, ma la data è stata ristretta al solo mese di febbraio perché in quel giorno del 273 San Valentino morì.
Un'altra versione vuole che il vescovo sia riuscito ad ispirare amore ai due giovani facendo volare intorno a loro numerose coppie di piccioni che si scambiavano dolci effusioni di affetto; da questo episodio si crede possa derivare anche la diffusione dell'espressione piccioncini.
Leggenda dei Bambini
San Valentino possedeva un grande giardino pieno di magnifici fiori dove permetteva a tutti i bambini di giocare. Si affacciava sovente dalla sua finestra per sorvegliarli e per rallegrarsi nel vederli giocare.
Quando veniva sera, scendeva in giardino e tutti i bambini lo circondavano con affetto ed allegria. Dopo aver dato loro la benedizione regalava a ciascuno di loro un fiore raccomandando di portarlo alle loro mamme: in questo modo otteneva la certezza che sarebbero tornati a casa presto e che avrebbero alimentato il rispetto e l’amore nei confronti dei genitori.
Da questa leggenda deriva l'usanza di donare dei piccoli regali alle persone a cui vogliamo bene.
Leggenda dei Colombini
Questa leggenda si basa sui fatti della precedente. Un giorno, però, vennero dei soldati e imprigionarono Valentino perchè il re lo aveva condannato al carcere a vita. I bambini piansero tanto. Valentino, stando in carcere pensava a loro, e al fatto che non avrebbero più avuto un luogo sicuro dove giocare. Ci pensò il Signore. Fece fuggire dalla gabbia del distratto custode due dei piccioni viaggiatori che Valentino teneva in giardino. Questi piccioni, guidati da un misterioso istinto, trovarono il carcere dove stava chiuso il loro santo padrone. Si posarono sulle sbarre della sua finestra e presero a tubare fortemente. Valentino li riconobbe, li prese e li accarezzò. Poi legò al collo di uno un sacchetto fatto a cuoricino con dentro un biglietto, ed al collo dell'altro legò una chiavetta. Quando i due piccioni fecero ritorno furono accolti con grande gioia. Le persone si accorsero di quello che portavano e riconobbero subito la chiavetta: era quella del giardino di Valentino. I bambini ed i loro familiari si trovavano fuori del giardino quando il custode lesse il contenuto del bigliettino. C'era scritto: "A tutti i bambini che amo? dal vostro Valentino".
Un’altra leggenda sostiene che mentre Valentino era in prigione in attesa dell'esecuzione, sia "caduto" nell'amore con la figlia cieca del guardiano, Asterius, che con la sua fede avesse ridato miracolosamente la vista alla fanciulla e che, in seguito, le avesse firmato il seguente messaggio d'addio: " dal vostro Valentino, " una frase che visse lungamente anche dopo la morte del suo autore...".
La festa venne istituita un paio di secoli dopo la morte di Valentino, nel 496, quando papa Gelasio I decise di sostituire alla festività pagana della fertilità (i lupercalia dedicati al dio Luperco) una ispirata al messaggio d'amore diffuso dall'opera di San Valentino. Tale festa ricorre annualmente il 14 febbraio ed oggi è conosciuta e festeggiata in tutto il mondo. La città di Terni, che custodisce delle reliquie del santo, nel mese di febbraio, rende omaggio a San Valentino, patrono della città, con una cornice di appuntamenti culturali, riflessivi, di festa, ma anche liturgici volti a tenere insieme la dimensione religiosa delle celebrazioni del Santo e quella civile delle iniziative ispirate alla forza evocativa dello stesso.
L' origine della festa degli innamorati è l’ennesimo tentativo della Chiesa cattolica di porre termine ad un popolare rito pagano per la fertilità che si celebrava il 15 febbraio, in onore di Pan/Fauno nella sua accezione di Luperco (in latino Lupercus), cioè protettore del bestiame ovino e caprino dall'attacco dei lupi.
Per gli antichi Romani febbraio era considerato il mese in cui ci si preparava all'arrivo della rimavera (ritenuta la stagione della rinascita). Si iniziavano i riti della purificazione: le case venivano pulite e vi si  spargeva del sale ed una particolare farina. Verso la metà del mese iniziavano le celebrazioni dei Lupercali per tenere i lupi lontano dai campi coltivati.
Il vero "evento" per la gioventù romana di allora era però un singolare rito annuale, una specie di lotteria dell'amore, con cui i romani pagani rendevano omaggio a Luperco: i nomi delle donne e degli uomini che adoravano questo dio venivano messi in un'urna e opportunamente mescolati, quindi un bambino sceglieva a caso alcune coppie che per un intero anno avrebbero vissuto in intimità affinché il rito della fertilità fosse concluso. L'anno successivo sarebbe poi ricominciato nuovamente con altre coppie.
Questi festeggiamenti erano legati alla purificazione dei campi e ai riti di fecondità, ma divenuti troppo orridi e licenziosi, furono proibiti da Augusto e poi soppressi appunto da papa Gelasio nel 494 che la cristianizzò anticipandola al giorno 14 di febbraio e attribuendo al martire ternano (in quanto univa in matrimonio giovani coppie alle quali l'imperatore aveva negato il consenso) la capacità di proteggere i fidanzati e gli innamorati indirizzati al matrimonio e ad un’unione allietata dai figli. Oggi la festa di San Valentino è celebrata ovunque come Santo dell’Amore. L’invito e la forza dell’amore che è racchiuso nel messaggio di San Valentino deve essere considerato anche da altre angolazioni, oltre che dall’ormai esclusivo significato del rapporto tra uomo e donna. L’Amore è Dio stesso e caratterizza l’uomo, immagine di Dio. Nell’Amore risiede la solidarietà e la pace, l’unità della famiglia e dell’intera umanità.
Visto che non vi è nulla più dolce dell’amore, questa festa si caratterizza per le dolcezze da regalare e fra esse il loro principe: sua maestà il cioccolato. Possiamo quindi anche chiamarla la festa del cioccolato. In questa occasione non si può deludere la persona amata non accompagnando il classico regalo con qualche dolcetto o qualche cioccolatino che dia un segno sensoriale del nostro affetto. Quindi prepariamoci a fare un salto in pasticceria ad acquistare una qualche tipologia di dolce per allietare il nostro appuntamento romantico.
Attenti però, dagli ultimi sondaggi sembra che l’uomo ai fornelli seduca molto di più. Perché allora non sorprendere il nostro partner preparando noi il dolce, ve ne suggeriamo ben tre, partendo dal più semplice da realizzare ed al tempo stesso di sicuro effetto fino ad una torta un po' più laboriosa. Unico inconveniente dover trovare tagliabiscotti o tortiera a forma di cuore, in alternativa recuperatene una rettangolare e buona preparazione. Se invece il tempo scarseggia possiamo comprare qualcosa di già pronto, ma rigorosamente a forma di cuore; in alternativa ci possiamo rivolgere a qualche cake designer per una torta con tanti bei pupazzetti come nella foto accanto con i soggetti delle vignette "Love is..." (realizzati da Marzia Caruso) oppure come la mini cake del blog "I dolci di Agata".
Se invece non abbiamo il partner non abbattiamoci, possiamo sempre preparare il dolce per noi e per il gruppetto di amici con cui trascorrere il 15 febbraio.
Il moderno consumismo, per non scontentare quanti non si ritrovassero nella prima festa (per “par condicio”), con un’abile operazione di marketing ha istituito la festa dei single giusto il giorno dopo data in cui si festeggiano i santi martiri Faustino e Giovita. Una sorta di proroga come per il carnevale ambrosiano.
La "Leggenda maior" ci racconta che entrambi erano figli di una nobile famiglia pagana di Brescia. Entrarono presto nell'ordine equestre e divennero cavalieri. Attratti dal Cristianesimo, dopo lunghi colloqui con il vescovo sant'Apollonio, chiedono e ottengono il battesimo.
Si dedicano subito all'evangelizzazione delle terre bresciane e per il loro zelo il vescovo Apollonio nomina Faustino presbitero e Giovita diacono. Il successo della loro predicazione li rende invisi ai maggiorenti di Brescia che approfittando della persecuzione voluta da Traiano invitano il governatore della Rezia Italico ad eliminare i due col pretesto del mantenimento dell'ordine pubblico. La morte di Traiano ed altri eventi portano i due ad essere più volte martirizzati ed allontanti da Brescia. L'imperatore ordina quindi il loro rientro a Brescia dove il nuovo prefetto eseguirà la sentenza di decapitazione il 15 febbraio poco fuori di porta Matolfa. Saranno sepolti nel vicino cimitero di San Latino.
Da tempo immemorabile “San Faustino” di Sarezzo è la ricorrenza patronale più nota e frequentata, in passato tra le bancarelle e le giostre si aggirava l’uomo del “verticale”, il cantastorie al suono dell’organetto narrava il triste destino di ragazze tradite ed abbandonate dall’innamorato; il foglio con la patetica storia scritta in poesia si poteva acquistare per pochi centesimi.
In omaggio alla tradizione secondo la quale S. Faustino dava alle ragazze l’opportunità di un incontro, la sera del lunedì crocchi di giovani si attardavano fino a notte inoltrata nella speranza di trovare il “moroso”. Forse la scelta di questo santo non è poi caduta tanto a caso.
Divertiamoci allora senza pensieri, magari la nostra anima gemella è proprio dietro l’angolo. Ci penserà San Faustino, in cooperazione con San Valentino, in fondo due santi sono meglio di uno!


Ed eccoci al momento dolce con le tre ricette...
Cuori fiammanti
Torta Carol in coppetta
Torta delle beatitudini
Per i single possiamo invece suggerire...
Graffi sul cuore
Non resta che augurarvi un dolcissimo San Valentino...
o un calorosissimo San Faustino in compagnia!

martedì 24 gennaio 2012

San Paolo: il santo dei serpenti

Chi non ha mai sentito parlare dell’Apostolo delle genti, a lui si deve la cristianizzazione di tutto il mondo allora conosciuto, da oriente ad occidente non c’è angolo dove lui non abbia messo piede. È uno dei pochi santi ad avere ben due festività: il 25 gennaio si ricorda la sua conversione sulla via di Damasco, mentre il 29 giugno ricorre, insieme all’apostolo Pietro, la commemorazione del suo martirio.
Il nome ebraico con cui ci viene presentato nella Bibbia era Saulo, anche se a tutti è noto con il nome romano di Paolo, che ereditò dal padre, insieme alla cittadinanza romana, ed usò normalmente dopo la conversione.
Saulo viene dall’ebraico Sha’ûl e significa “Richiesto, desiderato, implorato e ottenuto con la preghiera (da Dio)”, Saul fu uno dei re d’Israele. Il nome Paolo invece deriva dalla parola latina “paulus”, diminutivo di “paucus”, che significa “poco”, “non grande”, “piccolo”. Significa dunque “sono piccolo”, e San Paolo si dice fosse di bassa statura, ma fu soprattutto “piccolo davanti a Dio”.
Uno dei due apostoli più conosciuti al mondo, vanta numerose chiese ed una miriade di raffigurazioni sia pittoriche che scultoree. Fra le scene narranti gli episodi della sua vita primeggia la sua conversione, con caduta da cavallo, mentre si recava nella città di Damasco in cerca dei seguaci della nuova dottrina; celebre una raffigurazione del pittore Michelangelo Merisi da Caravaggio.
Nelle raffigurazioni della sua conversione è quasi sempre rappresentato in armatura militare e circondato da altri soldati, benché non sia un soldato, tale lo si crede per la sua iniziativa di andare dal sommo sacerdote che lo autorizza a recarsi a Damasco ad arrestare i cristiani e condurli in catene a Gerusalemme. La posa è quella di essere nell’atto di cadere da cavallo o già a terra folgorato dalla luce divina, come raccontato negli Atti degli apostoli al capitolo 9.
Una tradizione a Solarino vuole San Paolo, con la sua spada, uccisore di parecchi cristiani prima della sua conversione. Sul numero vi erano due correnti: l’una affermava che le vittime fossero state 99; l’altra affermava che fossero state 101 e, ad avvalorla, v’era un’espressione messa in bocca al Santo mentre uccideva la sua ultima vittima: «cientu e cienteunu!» (cioè cento e centouno).
A parte le pitture di episodi della sua vita, Paolo è raffigurato principalmente in compagnia di Pietro o da solo, qualche volta insieme con gli altri apostoli. In tutte tiene solitamente un libro nella mano sinistra, mentre con la destra impugna una spada con la punta rivolta a terra.
Elemento comune è la tipica tunica verde con mantello rosso in perfetto stile greco-romano per i civili, Paolo non era un soldato, ma solo un fanatico seguace “delle tradizioni dei padri” (Gal 1,3). Altro elemento caratteristico dell’Apostolo è la barba che lo distingue immediatamente dal capo degli apostoli: mentre Pietro viene sempre raffigurato con una barba bianca di tipo regolare, Paolo si distingue per una barba nera e folta di tipo allungato. Tipica l’espressione locale rivolta a chi ha una tale tipologia di barba: e chi pari, ‘n San Paulu! (e che sembri, un San Paolo!)
I principali attributi iconografici di questo santo sono il libro e la spada, mentre le corone e la palma le troviamo nelle varie decorazioni simboliche ad accompagnare quest’ultima.
La spada e il libro sono infatti i segni che caratterizzano questo santo in quasi tutta l’iconografia.
La spada è il simbolo della potenza che ha un doppio aspetto distruttivo, come portatrice di guerra e di morte, e costruttivo, come difesa e mantenimento della pace. È inoltre un simbolo del Verbo.
Rappresenta il martirio come nell’iconografia di altri santi decapitati, San Paolo fu decapitato quale privilegio spettante ai cittadini romani, ma anche «la spada dello Spirito, cioè la parola di Dio» (Ef. 6,17) che Paolo annuncia ai gentili, cioè ai popoli di cultura greco-latina, considerati pagani dagli ebrei. Quando viene rappresentato con due spade, la prima allude al suo martirio, la seconda in quanto «spada dello spirito», alla forza della sua fede e alla proclamazione della parola divina.
Il libro è il Vangelo e sta ad indicare l’opera di predicazione di San Paolo, ma in particolare il suo titolo di Apostolo e “Dottore delle genti” (Doctor gentium), appare nell’iconografia degli Apostoli e in quella dei “Dottori della Chiesa” oltre che dei quattro evangelisti (che scrivono sul libro aperto) con riferimento alla trascrizione del Vangelo; lo stesso Paolo è autore di ben 14 lettere ai cristiani.
Abbiamo già trattato della palma quale simbolo del martirio ed anche della corona con riguardo a Santa Lucia, non troveremo mai il santo con la corona in testa né con la palma in mano, semmai saranno gli angeli a reggere corona e palma come nel quadro del Crestadoro. Una peculiarità è nella simbologia presente nella basilica acrense dove sono ben 3 corone a cingere spada e serpente. Rifacendoci alla storia ed alla simbologia di San Sebastiano, che nel santuario di Melilli riporta due corone, si deduce che ci si riferisca alle volte in cui si è subito il martirio.
È certamente da escludere la leggenda dei tre tonfi delle testa mozzata con il sorgere delle relative tre fontane, occorre invece cercare altre sofferenze patite a causa del Vangelo. Potremmo ipotizzare gli altri due episodi nel naufragio di Malta e nella lunga prigionia.
Ed il serpente?, si starà chiedendo qualcuno. Si tratta di un attributo addirittura terziario, in quanto poco ricorrente. Eppure in tre località questo simbolo assurge al ruolo primario, contendendo la scena alla spada e cercando addirittura di offuscarne l’importanza.
Prima è Malta, l’isola in cui è avvenuto il noto episodio (Atti 28): approdati sull’isola dopo un terribile naufragio, vengono accolti dagli indigeni attorno ad un fuoco acceso per riscaldarsi. “Mentre Paolo raccoglieva un fascio di sarmenti e lo gettava sul fuoco, una vipera, risvegliata dal calore, lo morse a un mano.” Tra lo stupore delle persone presenti, “egli scosse la serpe nel fuoco e non ne patì alcun male”. Ospite del “primo” dell’isola ne guarì il padre ed anche molta altra gente, convertendoli alla nuova fede. Da quel momento la vipera di malta ha perso il suo veleno, i suoi abitanti ne sono diventati immuni e la sua terra è divenuta antidoto contro i veleni, tanto da essere poi commercializzata presso molti signori che temevano congiure di palazzo.
Altri due luoghi si contendono il patronato paolino e persino la sua visita: si tratta di Solarino e di Palazzolo Acreide, due comuni distanti circa 25 chilometri fra loro. Ciascuno con la sua festa, i suoi devoti ed i suoi ciaràuli. Entrambi festeggiano il Santo due volte l’anno, il 25 gennaio in forma minore e nel periodo estivo in forma solenne: Palazzolo ne festeggia il martirio il 29 giugno, mentre Solarino ne festeggia il patrocinio la prima domenica di agosto.
Feste di grande importanza in passato, tanto da essere citate dall’etnografo Giuseppe Pitré nel suo Feste patronali in Sicilia, hanno tuttavia oggi perso parte della loro imponenza a causa della scomparsa della figura dei ciaràuli che portavano in processione i serpenti. Oggi invece si assiste solo allo scioglimento delle promesse al Santo attraverso il “viaggio scalzo” in processione per le donne e, solo a Palazzolo, alla “spalla nuda” nel portare il fercolo.
La festa di Palazzolo risale al 1600 circa, nella chiesetta di San Paolo, poi di San Domenico adiacente al convento (oggi occupati da una scuola), ove la statua era custodita fino al terremoto del 1690, poi traslata nella chiesa di Santa Sofia, ricostruita e consacrata all’Apostolo.
Di più recente istituzione invece è il comunello di “San Paolo Solarino”, che vanta una chiesa dedicata al grande predicatore con resti risalenti al IV secolo, secondo l’archeologo Paolo Orsi. Inoltre la tradizione locale vuole che Paolo, nei tre giorni di sosta a Siracusa, si sia spinto fino a queste terre in visita ad una comunità cristiana.; una grotta vicina alla suddetta chiesa vi fornì alloggio. E chi può dire che non sia giunto fino a Palazzolo?, sostiene qualche devoto acrense.
Certa è, in entrambi gli agglomerati, in tempi passati, la presenza di manodopera maltese che può spiegare le caratteristiche tipicamente maltesi del culto, prima fra tutte la simbologia del serpente e la presenza di ciaràuli, persone che hanno ricevuto dal Santo il dono di maneggiare i serpenti senza esserne morsi, ma soprattutto quello di curare i morsi di animali velenosi attraverso l’applicazione sulla parte lesa della loro saliva accompagnata o meno dalla recita di una preghiera segreta chiamata ciarmu.
Il culto del serpente, nelle religioni antiche e primitive, rappresentava l’essere supremo che ha il potere creativo e distruttivo, il custode del caos o il depositario del sapere profetico. Nella tradizione giudaico-cristiana il serpente incarna il male, il demonio che sotto questa forma tentò Adamo ed Eva invitandoli a mangiare dei frutti dell’albero proibito (Genesi 3,1). In virtù di ciò esso simboleggia la tentazione al male da parte di Satana e tale rimane fino ai nostri giorni.
Qui però è il simbolo dell’episodio della vipera avvenuto a Malta (Atti 28,3), quindi è sempre presente nell’iconografia maltese insieme al fuoco. Rappresenta cioè il simbolo del patrocinio di San Paolo sugli tutti gli animali velenosi, che si riscontra anche in altri santi e nella loro iconografia: San Patrizio, vescovo d’Irlanda; San Domenico di Foligno festeggiato a Cocullo.
Nel nostro territorio l’unica specie velenosa è la vipera comune (Vipera aspis), il cui morso però non è letale, ma è più facile imbattersi nell’innocuo biacco (Coluber viridiflavus carbonarius) dal colore nero. A causa delle enormi dimensioni raggiunte da alcune vecchie femmine (chiamate “senili” o “matrone”), la natrice o biscia dal collare (Natrix natrix), chiamata in dialetto culòfia o culòriva, si pensava capace di sventrare un uomo con un colpo di coda, d’ingoiare bambini oltre ad agnelli e capre. Per il loro allontanamento si invocava l’aiuto di San Paolo o si cercava un ciaràulo.


[ Da “San Paolo il santo dei serpenti”, pag. 14 del bimestrale « I Siracusani » n. 67, Anno XII,  aprile-giugno 2009 ]